Mobilitazione generale
contro il disegno di
legge sulle intercettazioni, che ostacola le
indagini penali e imbavaglia l'informazione. Un testo
che difficilmente passerà l'esame della Corte
costituzionale e della Corte europea di giustizia, ma
che nel frattempo potrebbe causare gravi danni alla
giustizia e al diritto di sapere (vedi Intercettazioni: abbiamo
il "diritto di sapere" e DDL
intercettazioni: più difese dalla UE).
C'è la mobilitazione sulla Rete. Su Facebook Libertà e partecipazione ha
raccolto fino a ieri sera ventimila adesioni. Mentre l'appello
contro il "bavaglio", primo firmatario Stefano
Rodotà, ieri sera era irraggiungibile per il
sovraccarico del server. Lo stesso Rodotà era
intervenuto sulla Repubblica di sabato scorso con
un articolo durissimo: La legge che ordina il silenzio stampa.
Ma, come sappiamo, in Italia il medium che conta è
la televisione. E Rodotà, ex-presidente del Garante per
la protezione dei dati personali, l'altra sera è stato
ospite di Parla con me
su Rai3. L'intervista di Serena
Dandini è un documento da incorniciare a futura
memoria. Non solo per la requisitoria del professore contro il
disegno di legge, ma anche per la chiarezza con la
quale ha indicato la soluzione per conciliare il diritto
di sapere dei cittadini con le esigenze della privacy:
stralciare dai testi delle intercettazioni tutti i
passaggi che possono nuocere a qualcuno, se non
essenziali per il processo, prima che gli atti vengano
consegnati ai difensori e quindi diventino pubblici.
"Se fosse stata in vigore questa legge - ha
detto Rodotà - tutto quello che è avvenuto intorno
all'ex-ministro Scajola sarebbe rimasto assolutamente
sconosciuto". Ancora, sulla tragedia di Ustica,
"per trent'anni non si sarebbe potuto dire
nulla". E ha aggiunto: "Io non credo che ventisei procuratori
antimafia siano tutti impazziti, se hanno detto 'guardate
che se passa questa legge le indagini sulla criminalità
organizzata saranno gravemente pregiudicate'".
Il momento-chiave è stato quello in cui il
professore ha
tirato fuori una copia originale dell'Editto
sulla libertà di stampa, emanato da Carlo Alberto
di Savoia-Carignano il 26 marzo 1848. E ha fatto
notare come la pena massima prevista allora per i reati
di stampa fosse di un anno, mentre nel disegno di legge
in discussione si arriva a cinque anni.
Il tema merita una riflessione: il principio che vige in
ogni stato di diritto è che la pena deve essere
commisurata all'allarme sociale che il fatto suscita.
Oggi, all'inizio di una nuova e forse più grave
"tangentopoli", è difficile affermare che le
intercettazioni della magistratura destino un diffuso
allarme sociale. Certo, l'allarme è forte tra i
possibili intercettati...
"La stampa sarà libera, ma soggetta a leggi
repressive" aveva scritto il sovrano nello Statuto,
emanato un mese prima, che trasformava lo stato assoluto
in una monarchia costituzionale. Ma di repressione,
nell'editto del 26 marzo, ce n'è ben poca, in confronto
a quella di oggi.
Si deve notare una non casuale coincidenza di percorso tra
l'Editto sulla stampa e la legge di un secolo dopo, la
n. 47 del 1948 "Disposizioni sulla stampa": il
primo varato tre settimane dopo lo Statuto, la seconda
approvata l'8 febbraio 1948 dalla stessa assemblea che
un mese e mezzo prima aveva varato la Costituzione. A
dimostrazione che la libertà di stampa è una
componente essenziale del sistema di diritti che
costituiscono la democrazia.
In questo clima vale la pena di soffermarsi su alcuni
passaggi dell'Editto albertino e confrontarli con la
normativa oggi vigente:
Nel 1848: Art. 2. Ogni stampato così in caratteri
tipografici, come in litografia od altro simile
artificio, dovrà indicare il luogo, la officina e
l'anno in cui fu impresso, ed il nome dello stampatore.
La sottoscrizione dell'editore o dell'autore non è
obbligatoria.
Art. 3. Ogni stampato che non
abbia le indicazioni di cui nell'articolo precedente,
sarà considerato come proveniente da officina
clandestina, e lo stampatore sarà punito per questo
solo fatto con una multa da L. 100 a L. 300.
Cento anni dopo, nel 1948: Art. 2. Ogni stampato deve indicare il luogo e l'anno della
pubblicazione, nonché il nome e il domicilio dello
stampatore e, se esiste, dell'editore.
I giornali, le pubblicazioni delle agenzie
d'informazioni e i periodici di qualsiasi altro genere
devono recare la indicazione:
del luogo e della data della pubblicazione;
del nome e del domicilio dello stampatore;
del nome del proprietario e del direttore o vice
direttore responsabile.
Art. 5. Nessun giornale o periodico può essere
pubblicato se non sia stato registrato presso la
cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la
pubblicazione deve effettuarsi.
Per la registrazione occorre che siano depositati nella
cancelleria:
...3) un documento da cui risulti l'iscrizione nell'albo
dei giornalisti, nei casi in cui questa sia richiesta
dalle leggi sull'ordinamento professionale.
Art. 16. Chiunque intraprenda la pubblicazione di un giornale
o altro periodico senza che sia stata eseguita la
registrazione prescritta dall'art. 5, è punito con la
reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire
500.000.
La stessa pena si applica a chiunque pubblica uno
stampato non periodico, dal quale non risulti il nome
dell'editore né quello dello stampatore o nel quale
questi siano indicati in modo non conforme al vero.
In un secolo si passa da una semplice multa a due
anni di carcere. Un sovrano, costretto alla concessione
della libertà di stampa dagli eventi del suo tempo,
appare più liberale di un'assemblea costituente che ha
il compito di dettare le regole di uno stato democratico
moderno.
Però va ricordato che, cinquant'anni prima dell'Editto,
la Costituzione degli Stati Uniti d'America aveva
dichiarato che il Congresso non avrebbe potuto fare
leggi che limitassero la libertà di espressione del
pensiero o di religione. Altro che editto, altro che
articolo 21!
Comunque Carlo Alberto aveva scritto: Qualunque
suddito del Re il quale sia maggiore d'età e goda del
libero esercizio dei diritti civili, qualunque società
anonima o in commandita, qualunque corpo morale
legalmente costituito nei Regii Stati, potrà pubblicare
un giornale o uno scritto periodico, purché si uniformi
al disposto del seguenti articoli.
Oggi qualsiasi cittadino della Repubblica non può
pubblicare un giornale o un periodico: lo vieta l'art. 5
della legge scritta un secolo dopo.
Ciascuno può trarre le sue conclusioni. Ma prima di
chiudere le antiche pagine ingiallite, l'occhio cade su
un'altra norma: Non darà luogo ad azione la
pubblicazione degli scritti prodotti avanti i Tribunali
(art. 32). Dove per "azione" si intende
l'azione penale. Però ai tempi di Carlo Alberto non
c'erano le intercettazioni.
Post scriptum. Qualche giorno fa il Presidente
del consiglio ha detto che in Italia c'è troppa
libertà di stampa. Mi è sfuggito qualcosa, o l'Ordine
dei giornalisti non ha trovato nulla da ridire?
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