Le considerazioni del presidente dell’Ordine dei
giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo destano notevoli perplessità per il
contenuto delle critiche mosse a chi contesta la nuova legge sull’editoria ed
in particolare l’estensione dell’obbligo di registrazione della
"testata", con conseguente obbligo di direzione della stessa da parte
di un giornalista iscritto all’albo.
La prima obiezione ha carattere critico nullo: dice Abruzzo "Nessuno
comprende perché il mondo on-line voglia sottrarsi al rispetto delle regole
approvate dal Parlamento repubblicano (legge sulla sulla stampa e legge sulla
professione giornalistica). Regole, che vincolano anche i giornali politici e i
giornali telematici dei partiti tenuti alla registrazione presso i tribunali
(articolo 153 della legge n. 388/2000 o "legge finanziaria per il
2001)".
Precisato che la norma citata si inserisce in un ambito sistematico più
complesso che riguarda la concessione di contributi pubblici alle imprese
editoriali (per cui la registrazione opera come naturale contrappeso alla
facilitazione concessa), la domanda indiretta posta da Abruzzo non costituisce
né replica né spiegazione convincente. La risposta più incisiva è di
V. Zeno Zencovich: "Un sistema può ben vivere con delle lacune e
l'horror vacui nasconde spesso solo una radicata vocazione dirigistica degli
apparati statali cui nulla deve e può sfuggire." (La pretesa estensione
della telematica al regime della stampa: note critiche, in Diritto dell’informazione
e dell’informatica, 1998, p. 27).
Vorremmo, in altri termini, capire anche noi perché il mondo on line
dovrebbe sottostare a regole che gli sono strutturalmente estranee.
Prosegue Abruzzo affermando che "tutti i giornali hanno bisogno di aiuti
pubblici: spedizione postale, telefoni, crediti, mutui agevolati, etc.". Si
tratta dunque di una questione patrimoniale? Sembra di sì, a leggere quanto
dichiarato dall’onorevole Massimo D’Alema in un’intervista a DVDSat.it,
pubblicata su Punto
Informatico del 3/5/2001: "Da quando non sono più presidente del
Consiglio mi occupo d'informazione: noi diamo informazione No Profit nel senso
che l'accesso al sito è gratuito, nel senso che non abbiamo inserzioni
pubblicitarie ecc. e non siamo sottoposti alla nuova normativa. Si tratta di
capire bene la distinzione".
La distinzione è dunque tra chi gode di mezzi patrimoniali sufficienti per
gestire un sito informativo (non una testata giornalistica nel senso classico,
ma un sito che fornisce informazioni) senza ricorrere ad aiuti esterni, prima
fra tutti la pubblicità, e chi invece si serve della pubblicità per, ad
esempio, pagarsi lo spazio su di un server (la cui virtualità è materialmente
contraddetta dalle fatture del provider), pur senza chiedere nulla al pubblico
di fruitori, perché non ha mezzi propri.
Quest’ultimo, dunque, non farebbe informazione no profit e quindi deve
sottostare all’obbligo di registrazione e quindi di direzione da parte di un
giornalista professionista.
Per esemplificare grossolanamente, il rentier è libero, il quidam de
populo no. Detto dal legislatore è francamente sconfortante.
Lo sconforto infatti nasce dall’equivoco proprio su quella distinzione
"da capire bene", equivoco alimentato dall’utilizzazione di
categorie giuridiche inadeguate alla realtà del "mondo on line", come
lo chiama Abruzzo, sì che appare oggi poco sostenibile l’argomento della
Corte costituzionale (sent. n. 98 del 1968) in base al quale
… la funzione dell'Ordine - funzione, giova ripeterlo, che dà
giustificazione costituzionale alla sua istituzione e disciplina -, risulterebbe
frustrata ove proprio i poteri direttivi di un quotidiano, di un periodico o di
un'agenzia potessero essere assunti da un soggetto (non importa che si tratti
dello stesso proprietario o di altri) che per il fatto di non essere iscritto
nell'albo non possa essere chiamato a rispondere di fronte all'Ordine per
eventuali comportamenti lesivi della dignità sua e dei giornalisti che da lui
dipendono: vale a dire per inadempienza al primo e fondamentale dovere di
garantire che l'attività affidata alla sua direzione e responsabilità si
svolga in quel clima di libertà di informazione e di critica che la legge vuole
assicurare come necessario fondamento di una libera stampa.
Come ha osservato con tagliente precisione il pretore di Livorno nell’ordinanza
di rimessione alla Consulta dell’art. 663 bis c.p. (divulgazione di
stampa clandestina) in relazione agli artt. 5, comma 3 n. 3, l. 47/1948 e 45 l.
69/1963, "... quelle argomentazioni, svolte in anni in cui la stampa era
sostanzialmente l’unico strumento di manifestazione del pensiero, appaiono
oggi da rivedere alla luce delle modifiche intervenute nei mezzi di
comunicazione…".
Oggi, e l’affermazione è ricorrente, con l’internet ciascuno può essere
editore di se stesso, ognuno può manifestare il proprio pensiero senza dover
trovare "udienza" presso uno strumento di informazione.
L’interpretazione restrittiva della legge 62/01, nel senso appunto dell’obbligatorietà
della presenza di un giornalista professionista quale direttore responsabile,
configura in realtà un vero e proprio monopolio non sulla diffusione dell’informazione,
ma sull’esercizio della libera espressione di ciascun soggetto, in quanto
appunto pone come imperativo organizzativo una figura professionale ed estende
irragionevolmente i compiti di tutela del relativo Ordine ad una materia che non
gli compete: la libertà di espressione. Questa non può essere ristretta al
numero unico o alla pubblicazione episodica, per evitare la qualificazione di
periodica, perché in tal caso sarebbe evidente la limitazione illegittima di un
diritto costituzionale.
La Corte costituzionale, infatti, lo ha definito quale strumento mediato
di garanzia dell’art. 21 Cost., richiamando il proprio precedente del 1968 (cfr.
supra), tuttavia tale rinvio è ad un’affermazione espressamente
riferita alla libera stampa. Delle due l’una: o il concetto di stampa
viene esteso a qualsiasi attività informativa, ovvero il mondo on line non
è stampa, ma è qualcosa di più ampio (è libertà di pensiero, prima di
tutto).
Se l’opzione, però, è nel primo senso, allora è veramente tempo (it’s
high time dicono gli inglesi) che la Consulta torni ad esaminare la
questione.
Un’ultima notazione sulle dichiarazioni di Abruzzo, il quale richiama una
decisione del Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana
(organo di giurisdizione amministrativa di secondo grado per la Sicilia, in
sostituzione del Consiglio di Stato) sulla natura e sul ruolo degli ordini
professionali.
Il passo citato, a mio avviso, trova scarsa rispondenza con la natura della
professione giornalistica ed il ruolo dell’Ordine dei giornalisti e la sua
assimilazione ad altre professioni intellettuali è puro wishful thinking.
E’ vero che sia per il giornalista, sia per l’avvocato, viene in
considerazione un diritto di rango costituzionale (rispettivamente l’art. 21 e
l’art. 24 Cost.), tuttavia l’affiancamento è mera apparenza. L’avvocato
è lo strumento a disposizione dell’individuo per esercitare il suo diritto di
difesa (non è questa la sede per discutere del monopolio, peraltro ridotto alla
sola attività di difesa giudiziale civile, penale o amministrativa); il
destinatario della norma costituzionale è il singolo individuo, cittadino o
non. L’effettività di tale diritto è in linea di principio garantita da una
rigida disciplina dell’accesso e dell’esercizio della funzione, oltre che
dalle norme del processo.
Il giornalista non è lo strumento dell’individuo per potersi
esprimere, il diritto previsto dall’art. 21 Cost. spetta a tutti ed è
incostituzionale prevedere un sistema che condizioni qualsiasi attività
informativa, anche la più modesta, alla presenza di un soggetto qualificato che
agisca contestualmente come garante e come limite all’esercizio del diritto.
La democrazia non è anarchia, ma nemmeno oligopolio o, peggio ancora,
monopolio.
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