Non si spegne la polemica sull'applicazione della
legge 62/01 e sulla discussa obbligatorietà dell'assoggettamento dei siti
internet alla disciplina della stampa scritta nel 1948.
Ne parliamo nell'articolo "L'iscrizione è condizione
per l'inizio delle pubblicazioni". Qui cerchiamo di svolgere alcune
considerazioni di carattere più generale, proseguendo il discorso iniziato
pochi giorni fa (vedi E' finito il tempo delle corporazioni).
Ci sono due aspetti rilevanti che devono essere
tenuti presenti nel discorso sul regime della stampa applicato all'internet. Il
primo è costituito dalle contrastanti decisioni dei tribunali italiani, prima
della legge 62, sulle richieste di iscrizione delle testate telematiche. Alcuni
hanno negato che la legge 47/48 potesse applicarsi all'informazione on line,
sulla base di fondate considerazioni sulla lettera della legge stessa. Altri
hanno ritenuto, con motivazioni basate più sulla sostanza che sulla forma, di
accettare le domande.
Il secondo aspetto da considerare è la diffusa visione "libertaria"
dell'informazione telematica (vedi Non esiste
più la distinzione fra produttore e fruitore dell'informazione) secondo la
quale nella società dell'informazione non c'è più differenza tra chi dà e
chi riceve l'informazione e quindi non ha neppure senso la qualifica di
"giornalista", l'ordine professionale è un'assurdità e via
discorrendo.
Altre considerazioni si impongono. Una delle più
importanti riguarda il fatto che nella realtà dell'internet sono caduti i
confini del territorio fisico. Quindi nascono complesse questioni di
giurisdizione: alla domanda "dove si pubblica questo giornale?" la
risposta può essere "nel mondo" e l'indagine sulla sua proprietà
può condurre a entità economiche poste chissà dove. Con la conseguente
inapplicabilità - per fare un solo esempio - delle norme italiane sulla
trasparenza della proprietà editoriale (vedi La
titolarità delle imprese editoriali).
Dall'insieme di queste e di tante altre
osservazioni emerge una considerazione comune: la legge sulla stampa, già
discutibile all'epoca della sua emanazione, è un rudere ingombrante. Tutto
l'edificio costruito sulle sue fondamenta è da abbattere, perché non risponde
più alla realtà di oggi.
Alla base di un nuovo ordinamento ci deve essere il principio della libertà di
espressione, intesa in un'accezione la più ampia possibile, fino a esaminare la
possibilità di riformulare l'articolo 21 della Costituzione. Scritto fra
pesanti contrasti e sotto l'influsso delle precedenti norme censorie, esso
appare limitativo nei confronti di altre, più lungimiranti formulazioni, dal
Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (1790), all'articolo
19 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948).
Adeguare ai tempi l'ordinamento della stampa
comporta, come inevitabile conseguenza, anche l'aggiornamento delle regole sulla
professione giornalistica, e in particolare della legge "corporativa"
69/63. Ma questo punto richiede particolari cautele, perché il diritto in gioco
è un diritto "bifronte", come indica chiaramente il già citato art.
19 della Dichiarazione universale dei diritto dell'uomo:
Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione,
incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di
cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza
riguardo a frontiere. (Lo stesso concetto è ripreso nell'articolo 11 della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea: Ogni individuo ha diritto
alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la
libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa
essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera).
La Dichiarazione universale - che sembra
prefigurare l'internet con mezzo secolo di anticipo - considera essenziale il
diritto "di cercare e ricevere" idee e informazioni. La concreta
attuazione di questo diritto può comportare, per logica estensione, qualche
forma di tutela dell'individuo contro informazioni false o tendenziose. La
realtà della Rete, come si è rivelata in questi anni, indica la necessità - o
almeno l'utilità - di questa tutela.
D'altro canto fare informazione come attività
professionale comporta una tutela ancora più forte del "diritto di non
essere molestato per la propria opinione". L'informatore di professione
può subire limitazioni, condizionamenti o persecuzioni legali limitative della
propria autonomia. Nello stesso tempo ha responsabilità non indifferenti, come
il controllo delle fonti o il dovere di rettifica, che non possono essere
imposte all'informatore occasionale.
In passato l'attività sistematica di informare era subordinata all'esistenza di
una struttura editoriale, fatta di capitali e organizzazione. Oggi, con
l'internet, chiunque ha la possibilità di diffondere il proprio pensiero senza
limitazioni economiche o organizzative, anche in forma anonima, e senza assumere
alcuna responsabilità per le conseguenze derivanti dai suoi atti.
Dunque, ferma restando la libertà di espressione
per chiunque, è necessario che il "ricevente" dell'informazione sia
messo in grado di sapere se ciò che trova sulla Rete - o anche su una
pubblicazione a stampa - è un'informazione in qualche modo
"garantita", cioè se chi l'ha diffusa risponde delle conseguenze
della pubblicazione, se - in linea di principio - ha controllato le fonti, se è
obbligato a rettificare eventuali notizie non corrette. Questo è il punto
essenziale.
E' molto discutibile che un sistema fondato sui registri dei tribunali, sui
controlli di polizia e sulla cooptazione dei giornalisti all'interno della
corporazione possa garantire i requisiti dell'informazione professionale, mentre
impone limitazioni all'informazione non professionale, con pesanti sanzioni per
chi eserciti questa attività al di fuori dei registri e degli elenchi dei
tribunali e delle corporazioni.
E allora, quale può essere la soluzione? La
risposta è semplice: basta immaginare una procedura di "assunzione di
responsabilità" esplicita e verificabile, che preveda la sottoscrizione di
un codice di regole vincolanti, per qualificare in modo inequivocabile
l'informazione professionale.
Per quanto riguarda gli aspetti economici e la tutela del lavoro
dell'informatore professionale, basta che egli dimostri che svolge questa
attività in forma continuativa e che da essa ricava una quota significativa dei
propri guadagni.
Pensandoci bene, è anche una soluzione molto più semplice di quella attuale. E
ci sono gi strumenti tecnici per documentare in modo certo l'appartenenza di un
fornitore di informazioni a un "albo" che indica l'avvenuta assunzione
di responsabilità e quindi la qualifica, a tutti gli effetti, di
"giornalista" o di "editore".
Se vogliamo, è una forma di "bollino di
qualità". Ma non "concesso" da qualcuno, bensì
"conquistato" con l'impegno personale e la coscienza professionale.
Nell'attuale quadro normativo, e nell'attesa di un sistema più adatto ai tempi,
questa impostazione si può tradurre nel riconoscimento della facoltà -
non nell'obbligo - di iscrivere una testata nel registro della stampa, con la
conseguente accettazione delle responsabilità e dei doveri connessi a questo status,
ma solo "in quanto applicabili".
Nessun adempimento, se non quello di "rendersi reperibile" per chi
vuole continuare a fare informazione libera.
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