Eccola qui, la
proposta di "atto di indirizzo" presentata dal
senatore Alessio Butti (PdL) alla Commissione
parlamentare per indirizzo generale e la vigilanza dei
servizi radiotelevisivi. E qui,
non solo per completezza di informazione, la proposta della
minoranza firmata dal senatore Fabrizio Morri (PD). Di
questa non parla nessuno, forse perché non fa ridere
come la prima.
In realtà c'è ben poco da ridere. Anche se è difficile restare seri
di fronte alla la proposta di sperimentare "format
di approfondimento giornalistico innovativi che
prevedano anche la presenza in studio di due conduttori
di diversa formazione culturale". Immaginate un
programma condotto da un improbabile duo Michele
Santoro-Giuliano Ferrara (a parte il fatto che, come
ricordava sabato scorso Massimo Gramellini a Che
tempo che fa, Ferrara è comunista per
"formazione culturale").
In pagine di scontate affermazioni di principi e di luoghi comuni, con
pochi giri di parole, la proposta di Butti vuole colpire le trasmissioni più
invise al signore delle televisioni: Ballarò di
Giovanni Floris e Annozero di Michele Santoro. Il
riferimento alle serate di martedì e giovedì non
lascia dubbi. L'estensore finge di non sapere che il
successo dei due programmi non è dovuto alla loro
collocazione nel palinsesto, ma all'efficacia delle
formule e alla bravura dei conduttori.
Se Floris andasse in onda il lunedì e Santoro il
venerdì, l'andamento settimanale degli ascolti
rifletterebbe dopo poco tempo la nuova situazione. Ma se
dovessero saltare una settimana sì e una no, il
risultato sarebbe quello voluto: dimezzare l'ascolto, a
prescindere dall'efficacia del programma
"alternativo".
La levata di scudi contro il testo, con un'ondata di frizzi e lazzi che
arriva a ipotizzare l'alternanza settimanale nei Palazzi
più alti, porterà a
una nuova bozza, apparentemente meno invasiva di questa.
Ma in qualche modo l'attacco darà i suoi frutti, come
la censura dei due anni fa (vedi Tempo di elezioni. Vietato informare e
approfondire e Alla Rai continua la censura
sull'informazione). E ci sarà qualcuno che si dichiarerà soddisfatto
perché è stata fermata la proposta più distruttiva.
Anche il testo dell'opposizione, firmato da Morri, ha un nome nel
mirino: dove dice che "Deve essere evitata la
presenza nei programmi dei dirigenti dell’Azienda
(membri del CdA, direttore generale, direttori di
divisione, direttore di rete e di testata) se non per
ragioni meramente istituzionali", il bersaglio è Minzolini
con i suoi editoriali. Di contro Butti prevede che
"Per quanto riguarda i notiziari, siano essi tele o
radio giornali, deve essere preservata, come in
qualsiasi prodotto editoriale, la possibilità per il
direttore o per altri commentatori da lui indicati di
esprimere liberamente opinioni personali, a patto che
queste siano distinte dalle notizie".
Ma nella proposta dell'opposizione altre indicazioni hanno un valore più
generale e non appaiono dirette contro qualcuno o
qualche programma. E non si allontanano troppo dal
compito di "indirizzo generale" che dovrebbe
essere proprio della Commissione. Invece Butti straripa,
fino a spiegare agli operatori come si devono fare i
"controcampi".
Tutto questo durerà fino a quando il servizio pubblico radiotelevisivo
non sarà libero da una gestione strettamente
controllata dai partiti. Gestione che ha nella
Commissione di vigilanza il suo centro nervoso. Serve
una formula completamente diversa, che deve essere
sostenuta da tre colonne portanti: le norme generali, la
governance, il controllo.
A ben guardare, è il modello della tripartizione dei
poteri che costituisce la base dei sistemi democratici:
legislativo, esecutivo, giudiziario. Che funziona se i
tre poteri sono separati e indipendenti.
Invece nell'ordinamento attuale la Commissione di indirizzo generale e
vigilanza li comprende e li confonde. Nella prospettiva
di una seria riforma del servizio pubblico deve essere
abolita.
Le regole generali (potere legislativo) spettano al Parlamento. E'
talmente ovvio che non serve dilungarsi sul punto.
La gestione o governance (potere esecutivo) deve
essere nelle mani di un organismo non dipendente dai
partiti. Il sistema inglese di una
commissione nominata dopo una consultazione
pubblica potrebbe essere una soluzione. Sarebbe utile
anche la "paratia stagna" costituita da una
fondazione titolare delle azioni della holding
(anche se l'esperienza delle fondazioni bancarie dimostra che
il sistema non è al riparo dalle influenze politiche).
Il controllo del rispetto delle regole (potere
giudiziario) deve essere nelle mani di una commissione a
sua volta indipendente. E, anche qui, la soluzione
inglese può essere un punto di partenza.
Di riforme, vere o finte, la Rai ne ha viste tante. Ed è logico che sia
così, perché i mezzi di informazione devono riflettere
i cambiamenti della società. Ma quelle che in sessant'anni
hanno interessato il sistema sono sempre state riforme
pensate nell'ottica del controllo politico. Oggi si deve
imboccare una strada diversa, se si vuole che l'ente
radiotelevisivo faccia "servizio pubblico" e
non "servizio dei partiti". E non sempre a vantaggio di
quelli che sono, di volta in volta, al governo del Paese.
Come si è visto nei due anni dell'ultimo governo Prodi.
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