Con il regolamento del Registro degli
operatori di comunicazione (ROC), finalmente varato dall'Autorità per le
garanzie, si chiude il cerchio del regime giuridico dei "prodotti
editoriali", aperto dalla sciagurata legge 62/01
"Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla
legge 5 agosto 1981, n. 416". Si chiude nel peggiore dei modi, aumentando
la confusione che regna intorno alla materia dell'informazione on line.
Una settimana fa abbiamo dato una prima lettura del regolamento, mettendo in
evidenza il dato che appare più significativo: Nel ROC solo
gli editori che prevedono "ricavi". Si aggiunge ora l'analisi di
Franco Abruzzo La legge 62/01 e il registro degli
operatori, che conferma punto per punto le nostre prime deduzioni, sia pure
da un diverso angolo visuale. Ma, a una più attenta lettura, la prima
interpretazione non appare più così certa, tante sono le incongruenze del
testo e punti di frizione sia con la legge 249/97,
istitutiva del ROC, e la 62/01 (vedi ROC: lo
"scombinato disposto" delle leggi e del regolamento).
Ma partiamo pure dall'ipotesi interpretativa più immediata, che si riassume
in tre punti:
- i notiziari on line che non hanno regolare periodicità sono tenuti soltanto
a "esporre la gerenza", come scrive Abruzzo (già su questo punto c'è
molto da ridire, perché così si obbliga un privato cittadino che esprime
qualche idea o dà qualche informazione a pubblicare il proprio indirizzo di
casa);
- i notiziari che presentano il requisito della periodicità sono obbligati
alla doppia iscrizione, sia nel registro della stampa del tribunale competente
per territorio, sia nel ROC, perché la previsione di equivalenza tra le due
iscrizioni enunciata dall'articolo 16 della
legge 62/01 non è applicabile, a causa della diversa natura dei due registri;
- nessun cittadino che non sia iscritto all'Albo dei giornalisti può
pubblicare notizie sull'internet con periodicità regolare, perché non può
chiedere l'iscrizione al tribunale in mancanza del direttore responsabile, né
al ROC in quanto non ha previsione di "ricavi" dalla sua attività
editoriale.
La terza ipotesi è quella di gran lunga più comune sull'internet.
Nell'attuale quadro normativo un cittadino italiano che aggiorni regolarmente
una "pagina personale" (magari perché solo la domenica ha il tempo
per farlo) commette il reato previsto e punito dall'art.
16 della legge 47/48: stampa clandestina.
E' necessario riflettere su questo punto: in forza dell'art.
1 alla legge 62, il discrimine tra pubblicazione legale e pubblicazione
illegale è nella periodicità degli aggiornamenti. Se vuoi essere in regola con
la legge aggiornando regolarmente il tuo sito, devi essere iscritto all'Ordine
dei giornalisti.
Non può neanche sperare di ottenere l'iscrizione come pubblicista, perché
deve trovare una testata in regola con la legge 47/48 che pubblichi i suoi
iscritti e li paghi. Quanto all'iscrizione come professionista, superando
l'esame più o meno di Stato, campa cavallo: o si fa assumere da un giornale che
abbia già cinque professionisti a libro paga, o frequenta un corso
universitario...
Abruzzo, nella sua risposta al ministro Maroni,
respinge le accuse di corporativismo citando le proposte di apertura
dell'accesso alla professione formulate dal nuovo Consiglio dell'Ordine
lombardo. Ma la sostanza rimane sempre la stessa: solo altri giornalisti possono
concederti la tessera che ti qualifica come uno di loro. La tessera che,
alla luce del reato di stampa clandestina, di fatto dovrebbe distinguere un
giornalista da un delinquente!
C'è un'ultima soluzione: puoi trovare un prestanome iscritto all'Albo. Ma
così la legge non si applica, si aggira.
In tutto questo c'è qualcosa di assurdo, qualcosa che urta contro il buonsenso,
oltre che contro la Costituzione. Abruzzo cita in continuazione le sentenze che
nel tempo hanno confermato la costituzionalità della legge del '48 sulla
stampa e di quella del'63 sulla professione. Ma forse non è un caso se,
da decenni, si continua a mettere in discussione la legittimità costituzionale
di quelle leggi. Leggi vecchie, leggi scritte quando il cittadino comune non
aveva la possibilità di manifestare il proprio pensiero come oggi, attraverso
un mezzo alla portata di tutti, ma che nel contesto attuale limitano
oggettivamente la libertà di espressione.
E qui torna il discorso sull'Ordine dei giornalisti e sui suoi ruoli.
Nella risposta a Maroni, Abruzzo ribadisce la tesi dell'istituto come garante
sia della qualità dell'informazione (a tutela degli utenti), sia della
professione giornalistica. Trascura però il fatto che nella maggior parte dei
paesi democratici non esistono enti con le caratteristiche dell'organismo
italiano.
Nei ragionamenti di Abruzzo c'è un punto debole: il ritenere che l'abolizione
dell'Ordine getterebbe nell'anarchia il sistema dell'informazione e priverebbe i
giornalisti di qualsiasi tutela. In realtà, come dimostra l'esperienza di molti
paesi, possono esistere norme a tutela del pubblico e a difesa dell'indipendenza
dei giornalisti, oltre che per la selezione dei professionisti dell'informazione
abilitati ad avere la famosa tessera, ma senza un organismo-ente pubblico come
il nostro.
Ma il vero problema non è se abolire o no l'Ordine dei giornalisti, come
proponeva uno scriteriato referendum di qualche tempo fa, forse ispiratore
inconscio della "battuta scherzosa" del Ministro del lavoro.
Perché se ci deve essere una qualificazione formale della professione di
giornalista - presupposto per la tutela della professione stessa e di una
deontologia - ci deve essere anche un organismo preposto a queste funzioni.
Ma, e qui è la sostanza della questione, l'esistenza di questo organismo non
deve essere di ostacolo alla libertà di espressione di qualsiasi cittadino, non
deve disporre della chiave che apre o chiude la porta del diritto di
"pubblicare".
La linea di confine non deve essere tra il territorio dei giornalisti e quello
dei delinquenti (i possibili colpevoli del reato di stampa clandestina), ma tra
chi fa informazione professionale, con le responsabilità e le garanzie
connesse al ruolo, e il libero cittadino che non fa altro che esprimere le
proprie idee. Senza dimenticare che anche quest'ultimo è soggetto alla legge e
risponde, in sede civile e penale, degli stessi atti illeciti dei quali risponde
il giornalista.
La conclusione è una sola , sempre la stessa: servono leggi nuove.
Rappezzare le vecchie, come si è fatto con la 62/01 e il regolamento del
ROC, aggrava la situazione, aumenta la confusione e mette a rischio la libertà
di tutti.
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