Conto alla rovescia per la liberalizzazione
degli ordini professionali in Italia. La notizia
dell'ultima ora è che le prime disposizioni potrebbero
arrivare per il prossimo 20 gennaio. In ogni caso, entro il 13 agosto
di quest'anno il Governo dovrà emanare nuove regole,
coerenti con le direttive europee sulle prestazioni di
servizi (in particolare la 2006/123/CE) e con i principi
stabiliti dall'art. 3, comma 5, del decreto-legge
13 agosto 2011, n. 138.
Lo stesso decreto prevede che, ove il Governo non provveda
nel termine indicato, le disposizioni in contrasto con i suddetti
principi siano automaticamente abrogate.Alla parola "liberalizzazione" le
corporazioni mettono mano alle proteste e alle minacce. I più feroci sembrano
tassisti e farmacisti, ma anche gli altri non scherzano. Fra
i tanti ci sono i
giornalisti, o almeno una parte significativa della
categoria. Iscritti a una corporazione che non ha nessuna
intenzione di cedere neanche un pezzetto dei suoi presunti
privilegi. Che alla fine dei conti consistono soprattutto
nella vicinanza col potere e nell'essere una casta
esclusiva, in grado di tenere fuori i non allineati,
quelli che pensano con la propria testa, i rompiscatole.
Una casta sempre più scassata, anche per le
difficoltà dell'editoria. Ma che vorrebbe approfittare
dell'occasione di un'inevitabile riforma per cercare di chiudersi in un
fortilizio sempre più esclusivo.
Circola infatti una proposta con questi
capisaldi: a) l'attuale esame di idoneità professionale
diventa "esame di Stato" (oggi non lo è, ma si
cerca di spacciarlo già come tale); b) all'esame si
accede solo con la laurea triennale specifica; c) i
pubblicisti sono aboliti.
Autore della proposta
appare il solito Franco Abruzzo, ex
presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia.
Che da anni sostiene la tesi di una presunta
"richiesta" dell'Unione europea, volta non solo a
perpetuare la corporazione, ma addirittura a renderne più
rigide le regole di accesso. Abruzzo sostiene anche che
l'Ordine dei giornalisti è previsto dalla
Costituzione. Ambedue le proposizioni sono false. Vediamo
perché.
L'Unione europea impone l'apertura delle professioni
regolamentate. Non solo per facilitare il lavoro
intracomunitario dei professionisti, ma anche per
liberalizzarle e renderne più aperto l'accesso.
Esattamente il contrario di quanto si legge nella proposta
in questione.
Nella normativa dell'Unione, in particolare nelle
numerose direttive che si occupano dei servizi e del
libero mercato, mai si accenna alla professione
di giornalista come regolamentata o da regolamentare.
In particolare nella 2005/36/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 7 settembre 2005 "relativa al
riconoscimento delle qualifiche professionali".
Oggi in Italia ci sono due strade per avere la tessera
di giornalista. La prima è essere assunto come praticante
da un editore. Ma in questi anni gli editori non assumono,
licenziano. Molte testate chiudono o sono sull'orlo della
chiusura. L'altra strada è la frequenza, a caro prezzo,
di un corso riconosciuto da un ordine regionale: una
costosissima fabbrica di disoccupati.
La difficoltà di accesso è la causa principale del
dilagare del precariato. Un precariato miserabile, con
compensi vergognosi, che non può favorire la crescita
della professionalità. Se i giornali perdono lettori, è
anche per la qualità sempre più scadente dei contenuti.
Le eccezioni sono poche.
La barriera del praticantato, o del corso di formazione
per accedere all'esame di idoneità, è inutile. In
Italia, come in tutto il mondo, è l'editore che sceglie il giornalista.
Solo lui decide chi è giornalista e chi non lo è. A volte sceglie quello più bravo (succede sempre più di
rado), sempre più spesso quello che costa meno.
Nei Paesi dell'Unione europea ci sono diversi
ordinamenti, nessuno dei quali è paragonabile alla nostra
corporazione di origine fascista (qui una rassegna
di Paolo Bracalini sulla base di una ricerca
dell'Istituto Bruno Leoni). Negli USA la stessa idea di una selezione di
stato per le attività di manifestazione del pensiero è
inconcepibile. E comunque vietata dal Primo Emendamento
della Costituzione.
A proposito di fascismo, il solito Abruzzo sostiene
che non è vero che l'Ordine è stato istituito dal Duce.
Non servono tante disquisizioni per confutare questa
affermazione. Basta confrontare le norme (vedi Da Mussolini alla
democrazia è
cambiato qualcosa?).
Andiamo avanti. La seconda falsa affermazione di
Abruzzo è che l'Ordine dei giornalisti sarebbe previsto dalla
Costituzione. Da quale articolo? Il fatto strano è che lo
stesso Abruzzo qualche anno fa chiedeva che i giornalisti
fossero inseriti nella Carta fondamentale (vedi Giornalisti nella Costituzione e accesso soltanto via università).
Ora cita l'art. 33: "È
prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari
ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e
per l'abilitazione all'esercizio professionale".
Il trucco è fondato su un'inversione logica. La norma
costituzionale dice che alle professioni regolamentate si
accede con l'esame di stato. Abruzzo afferma che la prova
di idoneità prevista dalla legge
69/63 sull'ordinamento professionale è un esame di
stato. E ne deduce che quella di giornalista è una
professione regolamentata.
Invece la legge contempla per i giornalisti solo una "prova di idoneità professionale", mentre per
le altre professioni le norme parlano esplicitamente di
"esame di stato".
E' quindi evidente che per il legislatore italiano la
professione giornalistica non è soggetta all'esame di
stato che la Costituzione impone per altre. Come nel resto
del mondo, dove l'accesso a molte professioni è in
qualche modo sotto il controllo pubblico. Ma non quella
di giornalista.
L'ultimo punto da commentare è la proposta di
abolizione dei pubblicisti. Ma una buona metà
dell'informazione in Italia è realizzata da pubblicisti e
precari a vario titolo! Se andiamo avanti così, se
passasse una proposta di questo segno, tra qualche anno i giornalisti iscritti
all'albo sarebbero meno dei notai. Per i quali, en
passant,
la selezione deve continuare a essere più che rigorosa. Perché se un giornalista scrive una
sciocchezza, c'è sempre la possibilità di smentirlo. Se
un notaio non applica scrupolosamente la legge o non
svolge con la dovuta diligenza le verifiche che gli sono
imposte, le conseguenze per il cittadino-cliente possono
essere drammatiche.
Infine ci sarebbero da riprendere le considerazioni sui
rapporti tra l'esistenza di un accesso limitato alla
professione e la libertà di espressione garantita
dall'art. 21 della Costituzione. Ma sulla questione
bastano le parole di Luigi Einaudi, che risalgono al 1945,
quando si discuteva se mantenere in qualche modo l'albo
istituito dal fascismo:
«L’albo obbligatorio è immorale, perché tende a
porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere,
alla libera espressione del pensiero. Ammettere il
principio dell’albo obbligatorio sarebbe un risuscitare
i peggiori istituti delle caste e delle corporazioni
chiuse, prone ai voleri dei tiranni e nemiche acerrime dei
giovani, dei ribelli, dei non-conformisti».
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