Premessa. I (giornalisti) del titolo sono tra parentesi
perché così la corporazione di origine fascista indica
quelli che svolgono la professione senza essere iscritti
all'albo. Per approfondire: (Giornalista): una professione tra
parentesi e Da Mussolini alla
democrazia è
cambiato qualcosa?.
Per questi schiavi dell'informazione si prospettano
altre angherie. Sono previste da due atti formali. Il
primo dovrebbe iscriversi nella difficile operazione di
liberalizzazione delle professioni messa in campo dal
governo Monti. E' intitolato "Linee guida di riforma
dell'ordinamento giornalistico" ed è stato approvato
dal Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti il 19
gennaio scorso. Non se ne parla molto. E' anche difficile
trovarlo sul sito
dell'OdG.
La strenua resistenza delle varie categorie alle
liberalizzazioni è ovvia quanto ottusa. L'informazione
dà ampio conto delle proteste di tassisti, farmacisti e
altri professionisti. Nessun accenno, invece, alla più
assurda delle professioni regolamentate, quella di
giornalista: anomalia italiana, come ho scritto tante
volte, che non ha eguali nei Paesi democratici.
Il silenzio della stampa non è una dimenticanza né un forma di pudore. I
giornalisti, intesi come categoria professionale protetta,
hanno la coscienza sporca. Quindi tacciono.
La dimostrazione è proprio nelle Linee
guida di riforma dell'ordinamento giornalistico, che
dovrebbero costituire la proposta della categoria al
Ministro della giustizia. Il Ministro deve provvedere alle
diverse riforme entro il 13 agosto di quest'anno. Se non
deciderà, le norme "illiberali" saranno
automaticamente abrogate (DL
138/11, art. 3, c. 3). Ma servirà comunque un
provvedimento specifico per individuare le norme abolite,
il che potrebbe rendere in buona parte inefficace
l'abrogazione automatica.
La prima affermazione che si legge nel documento
dell'Ordine può essere considerata rivoluzionaria:
"L'accesso alla professione giornalistica è
libero".
La solenne dichiarazione dell'esordio è immediatamente
contraddetta dalle righe che seguono: "L'accesso alla
professione di giornalista dovrà avvenire attraverso
l'esame di Stato". E poi: "A far data
dell'entrata in vigore della riforma, chi avrà superato
l'esame di Stato sceglierà se iscriversi nell'Elenco
Professionisti o in quello Pubblicisti [qui ci vorrebbe
una virgola] non possedendo il requisito
dell'esclusività professionale".
Dunque quella che oggi è la prova di idoneità
professionale diventa esame di stato; chi oggi può
accedere all'elenco dei pubblicisti solo sulla base
dell'attività giornalistica svolta in due anni, domani
dovrà superarlo.
In poche parole, l'accesso che si dovrebbe
liberalizzare diventa ancora più esclusivo. Riservato ai
pochi che potranno permettersi una laurea e un tirocinio
di 18 mesi. Per come è formulata la proposta, sarà
difficile anche il "tirocinio dei pubblicisti".
Passiamo al secondo documento. Si tratta della Proposta di legge C3555
-
Norme per promuovere l’equità retributiva nel lavoro giornalistico.
L'Ordine esulta perché la Commissione cultura della
Camera ha stabilito di approvarla in sede legislativa,
cioè senza il passaggio dell'Aula. Sembra una cosa buona,
anche perché la relazione illustra perfettamente la
situazione. Vi si legge, fra l'altro: "Significativa
è la situazione di un'azienda editoriale destinataria nel
2008 di contributi di oltre 2,5 milioni di euro e che
eroga compensi per collaborazioni giornalistiche pari a
2,5 euro a pezzo".
Come si risolve il problema? Il buonsenso suggerirebbe
una norma chiara, che dicesse semplicemente: "il
giornalista libero professionista ha diritto a un compenso
lordo (cioè comprensivo di contributi e indennità) non
inferiore a quello di un giornalista dipendente".
Invece la soluzione contenuta nella proposta di legge
consiste (che novità!) nella nomina di una commissione. Composta da tre
membri, uno dei quali in rappresentanza del Consiglio
nazionale dell'Ordine. La commissione, "valutate le
politiche retributive" dei diversi settori,
"redige un elenco dei datori di lavoro giornalistico
che garantiscono il rispetto dei requisiti minimi
stabiliti dal comma 2". Cioè da un decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri. La presenza in
questo elenco sarà la condizione per accedere ai
contributi per l'editoria.
Meccanismo farraginoso, che non offre certezze, e che
potrebbe essere vanificato se passasse la più volte
ventilata proposta di esclusione dai contributi per le
testate più solide. I contributi all'editoria sono fra le
possibili misure di contenimento dei costi pubblici che
incontreranno più ostacoli, anche perché si tratta in
buona parte di una forma di finanziamento surrettizio dei
partiti.
Ma in fondo si tratta di dettagli. Il punto-chiave è
nel comma 1, dove si parla di "equità contributiva
dei giornalisti iscritti all'albo". Ai veri
precari, ai (giornalisti) tra parentesi, l'equità
contributiva sarà preclusa per legge.
Alla fine dei conti, se non passerai l'esame, cioè se non
sarai un figlio di papà che può permettersi almeno un
costoso diploma di laurea, non potrai neanche affrontare
l'esame. E se non passerai l'esame, non avrai neanche
diritto ai "minimi di equità retributiva".
Insomma, una doppia presa in giro. Mentre nella proposta di
"autoriforma" dell'Ordine c'è un passaggio che attesta l'inutilità dell'Ordine stesso:
"L'assicurazione obbligatoria, [qui la virgola è
di troppo] per i rischi derivanti dall'esercizio
dell'attività professionale non è conforme alla
specificità della professione giornalistica".
Infatti la specificità della professione giornalistica
è - fra l'altro - nel fatto che il giornalista non ha
come "cliente" un privato cittadino, ma un
editore, un'azienda. Quanto basta per rendere inutile il
regime di "professione regolamentata" che si
applica a medici, avvocati, commercialisti e via
elencando.
L'unica riforma possibile è l'abolizione dell'Ordine e
l'instaurazione del libero accesso alla professione,
secondo uno dei tanti schemi che funzionano negli altri
Stati democratici. Ma forse è un miraggio.
Per saperne di più vedi il dossier Le
pagine sull'Ordine dei giornalisti.
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