Vedi anche:
Gli articoli e le leggi sull'Ordine dei
giornalisti
Che fine ha fatto la Proposta di legge C3555
"Norme per promuovere l’equità retributiva nel
lavoro giornalistico"? Se lo chiedono molti colleghi
pubblicisti, illusi da un titolo che ha il sapore di una
pubblicità ingannevole. La risposta è che il
provvedimento è chiuso in un cassetto, in attesa del varo
della riforma delle professioni.
Dobbiamo partire da qui, dal regolamento che dovrà
essere emanato entro il 13 agosto prossimo, per capire il
(non)senso della presunta "equità retributiva".
Ne ho già parlato alcuni mesi fa in I (giornalisti) precari presi in
giro due volte, ma è opportuno approfondire la
questione.
Dunque in Italia tra due settimane ci sarà la riforma (epocale?)
delle professioni. Il testo finale del
regolamento conterrà alcune differenze significative
rispetto allo schema
di DPR predisposto dal Governo, in seguito a una serie
di osservazioni molto critiche formulate dal Consiglio di
Stato.
I giudici di Palazzo Spada hanno promosso il testo nel suo
insieme, ma le loro osservazioni toccano punti essenziali
della riforma. In particolare la definizione di
"professionista" (ritenuta troppo ampia), la
durata del tirocinio, i corsi di formazione iniziale e le
modalità della formazione permanente.
Tutto questo riguarda solo in piccola parte la
professione giornalistica, mai citata nel testo. E
soprattutto non tocca la sostanza di un ordinamento
professionale ormai fuori dal tempo (oltre che dallo
spazio, perché negli altri stati democratici non esistono
ordinamenti chiusi come il nostro).
Come non esistono, per quanto è dato di sapere,
situazioni vergognose come quella che riguarda migliaia di
giornalisti precari, in alcuni casi iscritti come
pubblicisti, in altri del tutto privi di qualsiasi forma
di riconoscimento della professione. Abusivi, per legge, e
passibili di sanzione penale se si qualificano per il
lavoro che svolgono.
Come tutti sanno, in Italia la professione di
giornalista è regolata dalla legge 3 febbraio 1963, n.
69. Essa prevede due categorie di giornalisti: i
professionisti e i pubblicisti. I primi sono "coloro che esercitano in modo esclusivo
e continuativo la professione di giornalista": i
secondi sono "coloro che svolgono attività giornalistica
non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni
o impieghi".
Ci sono poi i praticanti e gli iscritti all'elenco
speciale.
La realtà è diversa. Le categorie di pubblicisti sono
almeno tre.
1. Quelli che sono assunti
da un editore ai sensi del contratto nazionale:
professionisti di fatto, non sono qualificati
professionisti.
2. I liberi professionisti che svolgono in forma
prevalente e continuativa la professione di giornalista.
Ma per la legge non esistono: si può essere
professionisti solo dopo aver passato l'esame di idoneità
professionale.
3. I "pubblicisti a norma di
legge", cioè persone hanno una diversa attività
principale. Questi ultimi non
dovrebbero essere neanche considerati giornalisti (un
avvocato, che fa l'avvocato, e che scrive regolarmente
articoli di diritto, è sempre un avvocato, non un
giornalista).
Infine ci sono quelli che l'Ordine definisce "(giornalisti)",
cioè giornalisti tra parentesi, perché non può
riconoscere il titolo di giornalista chi non è iscritto
all'albo. Sono i precari dell'informazione, "giornalari"
invece che giornalisti (vedi Giornalisti e precari: la casta dei
"giornalari" e (Giornalista): una professione tra
parentesi)
Questa situazione non trova paragoni con quella delle vere professioni regolamentate.
Non ci sono iscritti all'Ordine dei medici che fanno i
ragionieri, né ingegneri che hanno uno studio legale. E
l'esercizio abusivo delle rispettive professioni è un
reato molto serio, per i danni che può provocare.
Ma, ditemi voi, che danni può commettere un giornalista
senza tessera? Sopra di lui c'è sempre un editore che
decide che cosa si pubblica e chi fa il servizio.
Siamo al nodo centrale della questione. Chi svolge
la professione di giornalista può farlo perché c'è un
editore che lo paga (o promette di pagarlo, prima o poi,
forse).
Da quando esiste la stampa, in ogni parte del mondo, è
sempre e solo un editore quello che decide chi è
giornalista e chi no. A volte il più bravo, spesso - da
noi - quello che lavora gratis o quasi.
Questa una delle ragioni sostanziali dell'inutilità
dell'Ordine dei giornalisti, degli esami di idoneità
professionale e di tutto l'ambaradan che ruota intorno a
comode poltrone, redditizie scuole di giornalismo e
organismi disciplinari che proteggono solo gli interessi
della corporazione.
In questo quadro si inserisce la questione del disegno
di legge sull'equità retributiva. Come ho sottolineato in
I (giornalisti) precari presi in
giro due volte, la proclamata equità retributiva
riguarda solo gli iscritti all'Ordine. I giornalari sono
fuori e non c'è nessuna prospettiva di miglioramento per
la loro situazione.
Ma anche per i pubblicisti il disegno di legge
nasconde (neanche tanto) una trappola mortale. Perché, se
gli editori saranno costretti a pagare compensi
"equi" agli iscritti all'ordine, si rivolgeranno
ai giornalari. Quelli che devono accontentarsi di pochi
euro per un pezzo che magari ha richiesto una giornata di
lavoro.
Ma anche questi ultimi - ultimi in ogni senso - sono a
rischio di estinzione. Saranno vittime dell'informazione
spontanea in Rete, quella di cui già oggi gli editori fanno man
bassa per riempire gratis le pagine delle edizioni on line
o dei notiziari televisivi.
La situazione non è allegra e non c'è nulla
all'orizzonte che possa accendere speranze di tempi
migliori. Non restano che gli auguri di buone vacanze, per il
caso che tra i lettori di questa pagina ci sia qualcuno
che possa
permettersele.
Nota: non si trova un testo completo e
attendibile del Parere del Consiglio di Stato sulla
bozza di regolamento delle professioni. Il
motore di ricerca del sito www.giustizia-amministrativa.it
è "in manutenzione" da tempo immemorabile.
|