Tre domande per
incominciare. Prima: qual è la percentuale di
informazione in Italia prodotta da collaboratori,
free lance e precari di vario genere? Se qualcuno
dispone di dati attendibili, il suo contributo a
questa discussione sarà prezioso.
Seconda domanda: chi è
giornalista? La riposta dovrebbe essere "chi per
professione produce il contenuto dei giornali". O
delle radio, delle TV o degli organi di informazione
sul World Wide Web. E' così in tutto le nazioni
democratiche, tranne che in Italia. Da noi è
giornalista solo chi è iscritto in un apposito albo
statale. E commette un reato chi, pur svolgendo la
professione, si qualifica come giornalista senza avere
il tesserino.
Terza domanda: qual è l'attività più fiorente nella società dell'informazione? La risposta dovrebbe
essere "fare informazione". Invece si sta
verificando il
contrario. Più il mondo è fatto di informazione,
meno l'informazione gode di buona salute.
L'informazione come impresa, s'intende, l'informazione
professionale. Un paradosso che si riscontra nei
numeri. Quelli dei bilanci in rosso di molti giornali, delle
vendite che calano, dei giornalisti che perdono il
posto di lavoro. Un solo esempio: il New York Times,
una delle testate più importanti del mondo, che per
fare cassa è costretto a vendere la sua sede, il prestigioso grattacielo
disegnato da Renzo Piano.
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In Italia non va meglio. Anzi. La crisi
economica aggrava una situazione storicamente non
rosea. Anche perché nel nostro paese manca la lunga
tradizione di stampa libera e indipendente che c'è
altrove, come in Gran Bretagna o negli USA. E manca,
forse di conseguenza, la tradizione di lettura dei
giornali: le vendite dei nostri
quotidiani sono ferme da decenni. Anzi, negli ultimi
tempi calano. Si dice che questo dipende dalla
concorrenza dell'informazione che si trova gratis sul
Web. In parte è vero.
Una conseguenza è che quella che un tempo appariva
come una professione privilegiata e rispettata ora è in sostanza divisa in
due "caste": una che va avanti alla meno
peggio, tra contratti risicati e prepensionamenti. Ma resta la casta "alta",
grazie anche alla presenza di qualche nome celebre. Accanto
c'è quella "bassa", quella dei
"paria". Sono i precari a vario titolo: collaboratori
coordinati e continuativi, collaboratori a progetto, pubblicisti con partita IVA. E quelli che si
arrabattano in qualche modo, con collaborazioni
saltuarie e il miraggio di una tessera di pubblicista,
che darà l'unico vantaggio di potersi qualificare
"giornalista" senza commettere il delitto di
abuso di professione. Punito dall'articolo 45
della legge professionale con una pena che può
arrivare a sei mesi di reclusione.
Un esempio è quello di Pino Maniaci di Partinico,
provincia di Palermo. E' proprietario dell'emittente
televisiva Telejato. Conduce un telegiornale scomodo,
perché
combatte la mafia con le armi del giornalista: le
notizie e i commenti. E' è stato oggetto di minacce e
attentati, come tanti giornalisti onesti che lottano
in prima linea per la legalità. Ma non è iscritto
nell'albo dei giornalisti. Due
volte è stato incriminato per esercizio abusivo
della professione di giornalista. Naturalmente
l'Ordine non lo ha difeso, perché non è
"giornalista". Ora ha
ottenuto l'iscrizione all'Albo come pubblicista. Fa lo
stesso lavoro di prima, ma non è più
"abusivo". Che senso ha?
Questi sono i fatti. E dunque la difesa della
vecchia legge e della proposta che vorrebbe
"aggiornarla", fatta dall'Ordine dei
giornalisti nella risposta
all'articolo di due settimane fa, lascia il tempo che
trova. E' inutile novellare una legge che dovrebbe
essere abrogata e sostituita da una normativa degna di
una democrazia moderna.
La ricostruzione storica della nascita dell'Ordine,
esposta nell'articolo dell'ufficio comunicazione dell'OdG, è
corretta. Ma la sua
interpretazione è discutibile. Si può anche dire che
Mussolini prima inventò l'ordine dei
giornalisti, poi si accorse che attraverso i prefetti
poteva avere un controllo ancora più forte sulla
stampa e lasciò perdere. L'idea nata nel primo periodo del fascismo fu
attuata dalla Repubblica nel 1963... E' questa
l'opinione che troviamo, per esempio, in questo
articolo di Paolo Bracalini. Ancora attuale,
nonostante la mutata situazione politica.
"Giornalisti sono
tutti coloro che hanno qualcosa da dire o si sentono
di esprimere la stessa idea che gli altri dicono o
presentano male. L'albo è un comico non senso. Non
esiste un albo di poeti e non può esistere un albo di
giornalisti". Così scriveva un grande liberale, Luigi Einaudi, quando
si discuteva di quella che sarebbe diventata la legge
del 1963 sull'ordinamento della professione di
giornalista. E ancora: "L’albo obbligatorio è immorale,
perché tende a porre un limite a quel che limiti non
ha e non deve avere, alla libera espressione del
pensiero. Ammettere il principio dell’albo
obbligatorio sarebbe come un resuscitare i peggiori
istituti delle caste e delle corporazioni chiuse,
prone ai voleri dei tiranni e nemiche acerrime dei
giovani, dei ribelli, dei non conformisti".
Sul fronte politicamente opposto un grande
comunista, Enrico Berlinguer, diceva:
"Io sono contrario al requisito di qualsiasi
titolo di studio per la professione di giornalista,
perché considero questo come una discriminazione
assurda, una discriminazione di classe, contraria alla
libertà di stampa e alla libera espressione delle
proprie opinioni" (non è nota la fonte
originale, cito dal blog di Beppe Grillo).
Altri punti della risposta dell'Ordine meritano di
essere discussi. Ma sono in gran parte cose già
scritte. Vedi, fra l'altro, Abolire l'Ordine? E' una proposta
troppo "radicale" e Siamo tutti
giornalisti?, oltre agli articoli di Rodolfo Falvo Il giornalismo tra
"superprofessione" e "convergenza", In Europa il giornalismo non è una
libera professione e La Costituzione e la professione di giornalista).
Diverse le opinioni sostenute negli articoli di Franco
Abruzzo, elencati nell'indice
di questa sezione.
Oggi c'è una situazione nuova. C'è l'avanzata
dell'informazione non professionale del web, che
impone ai professionisti maggiore attenzione agli
impegni che assumono di fronte ai lettori. C'è la
crisi della stampa, legata in parte alla congiuntura
economica, in parte alla concorrenza dei nuovi media,
ma forse soprattutto all'incapacità di ripensare un
modello che ormai appare del tutto inadeguato al nuovo
contesto della comunicazione.
Difenderlo ancora, soprattutto nei suoi aspetti
più limitanti, può avere solo l'effetto di ritardare
ancora un'innovazione sempre più urgente. Che può
incominciare proprio attribuendo la dignità che
merita al lavoro svolto da persone che non si possono,
per legge, chiamare "giornalisti". Quindi,
essendo quasi tutti precari, può essere corretto
chiamarli "giornalari".
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