Rimbalza su Facebook un commento a
firma di Maurizio Bekar e Dario Fidora sul disegno di
legge S3233, che fa finta di introdurre l'equo
compenso per i giornalisti precari. I due autori
presentano le diverse versioni del testo che sortirebbero
dall'approvazione di opposti emendamenti Una lettura
interessante, perché aiuta a capire come il potere non
abbia altra missione che conservare se stesso e reprimere
ogni voce che possa metterlo in discussione.
In breve: il disegno di legge "equo compenso"
ha lo stesso fine del "salva Sallusti". Una
finzione, un imbroglio. Si dice di voler difendere la
libertà dell'informazione e invece si introducono norme
ancora più liberticide. Possibile che nessuno si accorga
del limite chiaramente indicato dall'art. 1?
1. In attuazione dell’articolo 36, primo
comma, della Costituzione, la presente legge è
finalizzata a promuovere l’equità retributiva dei giornalisti
iscritti all’albo di cui all’articolo 27 della
legge 3 febbraio 1963, n. 69, e successive modificazioni,
titolari di un rapporto di lavoro non subordinato in
quotidiani e periodici, anche telematici, nelle agenzie di
stampa e nelle emittenti radiotelevisive.
"Giornalisti iscritti all'albo": solo a
questi si applicherebbero le norme sull'equo compenso. Ma
in Italia, secondo il rapporto dell'Osservatorio permanente
sul precariato dell'Ordine dei giornalisti, ci sono
"20 mila giovani che lavorano e svolgono informazione
senza essere disciplinati e tutelati". Per costoro la
legge sull'equo compenso non vale. Potranno ancora essere
pagati due euro a "pezzo" senza che nessuno
batta ciglio.
Il risultato finale potrebbe essere l'opposto di
quello che oggi sperano i giornalisti freelance iscritti
all'albo. Gli editori smetterebbero di farli lavorare,
preferendo i non iscritti, per i quali nessuna legge
prevederebbe un equo compenso.
Per gli altri, quelli "regolari", non dovrebbe
servire una legge, se l'Ordine facesse quello che fanno i
veri ordini professionali: tutelare la dignità e la
professionalità dei suoi iscritti. O se lo facesse il
sindacato.
Si aggiunga che la sanzione per gli editori che
non applicassero l'equo compenso consisterebbe nella
mancata erogazione delle "provvidenze". Facile
aggirare il problema, facendo lavorare qualche iscritto
all'albo e una quantità di "irregolari". Senza
considerare che le provvidenze sono in via di estinzione e
con loro il castigo previsto dal DDL.
Per tutti, iscritti e non iscritti all'albo, si
dovrebbe veramente applicare l'articolo 36
della Costituzione, in combinato disposto con l'articolo 3:
cioè una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e
dignitosa e, poiché fa lo stesso lavoro, uguale a
quella di un giornalista subordinato. Perché Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali.
Il testo in discussione al Senato non tiene conto
dell'articolo 3 e tutela (con meccanismi che possono
vanificarne lo scopo) solo una parte dei cittadini che,
facendo lo stesso lavoro di giornalista, dovrebbero essere
uguali davanti alla legge. Conclusione: dal disegno di
legge S3233 emana anche un vago olezzo di
incostituzionalità.
Vedi anche:
(Giornalista): una professione tra
parentesi - 30.10.09
I (giornalisti) precari presi in
giro due volte - 30.01.12
La non-riforma e le illusioni dei
pubblicisti - 30.07.12
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