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Sistema informazione

Difendere l'informazione. Ma che cosa è "informazione"?

21.10.04
Che differenza c'è tra "informazione" e "controinformazione"? Tra le tante risposte possibili, due vengono per prime alla mente. La prima: l'informazione viene "dall'alto", la controinformazione "dal basso". La seconda: non c'è nessuna differenza, quando tutte e due usano l'internet e ogni utente può scegliere quella che preferisce, e magari confrontarla con l'altra.

A questo punto nasce un altra domanda: al di fuori dell'internet c'è la stessa libertà di scelta? La risposta è "no". Sia perché la controinformazione non dispone dei mezzi economici dell'informazione, e quindi non può stampare e distribuire giornali o mettere in piedi emittenti televisive che raggiungano un vasto pubblico, sia perché in qualche caso i canali informativi sono nelle mani di qualcuno che decide che cosa il pubblico può sapere e che cosa no (non ci vuole molto per capire che quest'ultimo è il caso di Sky, vedi Decoder Sky, gli utenti chiedono aiuto).

Insomma, il  fondamentale diritto di informare e di essere informato non vale per tutti. Si oppongono ostacoli legali (la normativa italiana sulla stampa, per esempio) e ostacoli "illegali" (per esempio Sky, che viola spudoratamente la legge sul decoder unico, col beneplacito delle autorità competenti). E se tutto questo non basta, allora si passa ai sequestri, se necessario anche su scala internazionale (il caso Indymedia), così si nega - si tenta di negare - la libertà di dare e ricevere informazioni anche sull'internet.

Dunque c'è un nesso fra i tre argomenti che in questo periodo destano l'interesse dei lettori,  a giudicare dalle e-mail indirizzate alla redazione di InterLex: il sequestro del sito di controinformazione Indymedia, l'affaire Sky e le norme italiane sull'informazione, in particolare quelle della famigerata legge 62/01(vedi Editoria, un confuso groviglio normativo). Sono continue le domande sull'obbligo di registrazione, ai sensi della legge del 1947, per i siti internet che fanno informazione. Domande che si sottraggono a tutti i nostri tentativi di riassumere la situazione normativa attuale in una sola frase: periodico=sì, non periodico=no. Questo, e non altro, dice la legge. E non c'entrano né l'argomento della pubblicazione, né l'ambito di diffusione, né altri dettagli.

Ma è giusto, è logico? Prendiamo, per non andare lontano, proprio il caso della nostra rivista, prima testata telematica che ha ottenuto in quanto tale la registrazione ai sensi dell'art. 5 della legge n. 48 del 1947. Il progetto iniziale prevedeva un periodicità plurisettimanale, che poi è diventata, di fatto, settimanale. Oggi, in attesa di ormai imminenti evoluzioni, esce senza una cadenza definita. Cioè, secondo l'art. 1 della legge 62/01, prima rientrava nell'obbligo della registrazione, oggi potrebbe uscire con le sole indicazioni della "gerenza", ai sensi dell'art. 2 della 47/48. Eppure è sempre la stessa pubblicazione!
Evidentemente il criterio della periodicità non è adatto a distinguere un organo di informazione da un sito di natura diversa. Ma non è il solo difetto della legge del 2001.

Se n'è accorto anche il Governo, che ha presentato alla Camera un progetto di legge (PDL 4163) che, secondo quanto si legge nella relazione, dovrebbe introdurre  una serie di disposizioni che sanano errori o imprecisioni contenuti nella normativa vigente volta a sostenere il settore dell’editoria, dal momento che, nella prima fase di operatività della citata legge 7 marzo 2001, n. 62, si sono evidenziate alcune difficoltà applicative tali da rendere opportuna una limitata rivisitazione della predetta legge al fine di evitare faticosi processi interpretativi della volontà del legislatore che potrebbero snaturarne il significato.

Il periodo si riferisce forse più alla seconda parte della legge, quella che riguarda le "provvidenze", ma vale senza dubbio anche per le disposizioni sui prodotti editoriali. Vediamo come il progetto di legge tenta di risolvere i problemi con le proposte contenute nell'art. 1:

1. I siti aventi natura editoriale sono soggetti, ai fini dell’applicazione delle norme sulla responsabilità connessa ai reati a mezzo stampa, all’iscrizione nel registro di cui all’articolo 1, comma 6, lettera a), numero 5), della legge 31 luglio 1997, n. 249.

Premesso che la norma citata si riferisce al registro degli operatori di comunicazione (ROC), tenuto dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, questa previsione introduce una vistosa asimmetria tra l'informazione tradizionale e quella telematica. La prima (stampa, radio e TV) resterebbe infatti soggetta alle disposizioni dell'art. 5 della legge del '48, con la presenza obbligatoria di un direttore responsabile iscritto all'Ordine dei giornalisti, la seconda potrebbe farne a meno. Con i conseguenti dubbi di costituzionalità, confermati dalla frase successiva:

Si applica l’articolo 16 della legge 7 marzo 2001, n. 62.

Il quale, ricordiamo, dice che "i soggetti tenuti all’iscrizione al registro degli operatori di comunicazione... sono esentati dall’osservanza degli obblighi previsti dall’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. L’iscrizione è condizione per l’inizio delle pubblicazioni". Dunque si conferma la differente disciplina tra stampa, radio e TV da una parte e internet dall'altra. L'ultima frase sarebbe il corrispettivo della disposizione dell'art. della 48/47 ("Nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale"...). Poi il testo precisa: 

Si considerano siti aventi natura editoriale quelli che contengono, in via prevalente, prodotti editoriali come definiti dall’articolo 1 della legge 7 marzo 2001, n. 62.

La precisazione sembra tautologica. La chiave è nell'inciso "in via prevalente", che esclude dalla nozione di "prodotto editoriale" i siti non specificamente... editoriali. Ma il problema è un altro: non è il criterio della "editoria" che dovrebbe costituire la discriminante, ma quello della "informazione". Perché l'editoria è un concetto molto vasto, che comprende anche l'informazione. Ma ecco una disposizione che chiarisce in qualche modo le precedenti:

2. Gli editori di testate giornalistiche in formato elettronico e digitale sono soggetti, ai fini dell’applicazione delle norme sulla responsabilità connessa ai reati a mezzo stampa, all’iscrizione nel registro di cui all’articolo 1, comma 6, lettera a), numero 5), della legge 31 luglio 1997, n. 249. Si applica l’articolo 16 della legge 7 marzo 2001, n. 62.

Riassumendo: il "sito" che ha natura editoriale deve iscriversi al ROC. Ma se una "testata giornalistica in formato elettronico e digitale" è ospitata da un sito che non ha natura editoriale (o esce, per esempio, su supporto ottico), allora è la testata che deve essere iscritta, con quello che ne segue. Una domanda: se il sito ha natura editoriale (per esempio, interlex.it) e vi si pubblica una testata giornalistica (InterLex), si devono chiedere due registrazioni?
E adesso viene il bello:

Si considerano testate giornalistiche in formato elettronico e digitale quelle che sono diffuse al pubblico con regolare periodicità e per le quali è previsto il conseguimento di ricavi da attività editoriale.

Chiaro quanto assurdo. E non solo assurdo. Perché, come abbiamo visto, il criterio della periodicità (non esiste una "periodicità irregolare" - signori Deputati, un po' di rispetto per la lingua italiana!) non ha senso per la qualificazione della natura editoriale (rectius: informativa) di una pubblicazione. Ma anche il criterio dei ricavi non soddisfa, perché da una parte nega che si possa fare informazione anche gratis e dall'altra è in contraddizione con la premessa "ai fini dell'applicazione delle norme sulla responsabilità connessa ai reati a mezzo stampa". Di fatto si dice (ma senza chiarire il punto) che la responsabilità per questo tipo di reati è differente se il sito prevede, o no, il conseguimento di ricavi. Ancora con qualche sospetto di incostituzionalità: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali", dice l'art. 3 della nostra Carta fondamentale. E quindi dovrebbero essere uguali davanti alla legge quelli che prevedono e quelli che non prevedono ricavi.

Inutile dire di più. Queste disposizioni non hanno alcun riferimento alla realtà dell'informazione di oggi. Un'informazione, lo ricordiamo, senza confini, sicché il primo elemento che dovrebbe essere preso in considerazione, nella discutibile ottica del legislatore, è quello relativo al "domicilio" dei siti e delle pubblicazioni. Perché le norme che abbiamo citato possono operare solo in ambito nazionale e difficilmente potrebbero essere accettate in altri Paesi. Per esempio, gli Stati Uniti d'America, dove il Primo Emendamento della Costituzione stabilisce seccamente che il Congresso "non può" nemmeno legiferare sulla materia.

Ma, a giudicare dalla vicenda di Indymedia, non ci sono problemi: la magistratura italiana e quella svizzera chiedono alla polizia federale americana di sequestrare un sito che fa informazione e che ha sede in Gran Bretagna (se le ricostruzioni sono corrette, vedi ancora Indymedia, un sequestro "politico"?). Anzi, no, Indymedia non fa informazione, fa controinformazione. O forse nemmeno quella, perché "Aver oscurato il sito di Indymedia è stata una cosa buona e giusta: non si trattava di controinformazione, ma di un sito che sputava fango e veleno, pieno di oscenità", come ha detto un parlamentare italiano. E siccome le leggi difendono chi fa informazione... ecco che le norme italiane, che tentano di definire quali sono "prodotti editoriali" e quali no, acquistano un senso. Molto preoccupante.

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