Che differenza c'è tra "informazione" e
"controinformazione"? Tra le tante risposte possibili, due vengono per
prime alla mente. La prima: l'informazione viene "dall'alto", la
controinformazione "dal basso". La seconda: non c'è nessuna
differenza, quando tutte e due usano l'internet e ogni utente può scegliere
quella che preferisce, e magari confrontarla con l'altra.
A questo punto nasce un altra domanda: al di fuori dell'internet c'è la
stessa libertà di scelta? La risposta è "no". Sia perché la
controinformazione non dispone dei mezzi economici dell'informazione, e quindi
non può stampare e distribuire giornali o mettere in piedi emittenti televisive
che raggiungano un vasto pubblico, sia perché in qualche caso i canali
informativi sono nelle mani di qualcuno che decide che cosa il pubblico può
sapere e che cosa no (non ci vuole molto per capire che quest'ultimo è il caso
di Sky, vedi Decoder Sky, gli utenti chiedono
aiuto).
Insomma, il fondamentale diritto di informare e di essere informato non
vale per tutti. Si oppongono ostacoli legali (la normativa italiana sulla
stampa, per esempio) e ostacoli "illegali" (per esempio Sky, che viola
spudoratamente la legge sul decoder unico, col beneplacito delle autorità
competenti). E se tutto questo non basta, allora si passa ai sequestri, se
necessario anche su scala internazionale (il caso
Indymedia), così si nega - si
tenta di negare - la libertà di dare e ricevere informazioni anche
sull'internet.
Dunque c'è un nesso fra i tre argomenti che in questo periodo destano
l'interesse dei lettori, a giudicare dalle e-mail indirizzate alla
redazione di InterLex: il sequestro del sito di controinformazione Indymedia, l'affaire
Sky e le norme italiane sull'informazione, in particolare quelle della
famigerata legge 62/01(vedi Editoria, un confuso groviglio normativo). Sono continue le domande sull'obbligo di registrazione,
ai sensi della legge del 1947, per i siti internet che fanno informazione.
Domande che si sottraggono a tutti i nostri tentativi di riassumere la
situazione normativa attuale in una sola frase: periodico=sì, non periodico=no.
Questo, e non altro, dice la legge. E non c'entrano né l'argomento della
pubblicazione, né l'ambito di diffusione, né altri dettagli.
Ma è giusto, è logico? Prendiamo, per non andare lontano, proprio il caso
della nostra rivista, prima testata telematica che ha ottenuto in quanto tale la
registrazione ai sensi dell'art. 5 della legge n. 48 del 1947. Il progetto
iniziale prevedeva un periodicità plurisettimanale, che poi è diventata, di
fatto, settimanale. Oggi, in attesa di ormai imminenti evoluzioni, esce senza
una cadenza definita. Cioè, secondo l'art. 1 della legge 62/01, prima rientrava
nell'obbligo della registrazione, oggi potrebbe uscire con le sole indicazioni
della "gerenza", ai sensi dell'art. 2
della 47/48. Eppure è sempre la stessa
pubblicazione!
Evidentemente il criterio della periodicità non è adatto a distinguere un
organo di informazione da un sito di natura diversa. Ma non è il solo difetto
della legge del 2001.
Se n'è accorto anche il Governo, che ha presentato alla Camera un progetto
di legge (PDL 4163) che,
secondo quanto si legge nella relazione, dovrebbe introdurre una serie
di disposizioni che sanano errori o imprecisioni contenuti nella normativa
vigente volta a sostenere il settore dell’editoria, dal momento che, nella
prima fase di operatività della citata legge 7 marzo 2001, n. 62, si sono
evidenziate alcune difficoltà applicative tali da rendere opportuna una
limitata rivisitazione della predetta legge al fine di evitare faticosi processi
interpretativi della volontà del legislatore che potrebbero snaturarne il
significato.
Il periodo si riferisce forse più alla seconda parte della legge, quella che
riguarda le "provvidenze", ma vale senza dubbio anche per le
disposizioni sui prodotti editoriali. Vediamo come il progetto di legge tenta di
risolvere i problemi con le proposte contenute nell'art. 1:
1. I siti aventi natura editoriale sono soggetti, ai fini dell’applicazione
delle norme sulla responsabilità connessa ai reati a mezzo stampa, all’iscrizione
nel registro di cui all’articolo 1, comma 6, lettera a), numero 5), della
legge 31 luglio 1997, n. 249.
Premesso che la norma citata si riferisce al registro degli operatori di
comunicazione (ROC), tenuto dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni,
questa previsione introduce una vistosa asimmetria tra l'informazione
tradizionale e quella telematica. La prima (stampa, radio e TV) resterebbe
infatti soggetta alle disposizioni dell'art. 5 della legge del '48, con la
presenza obbligatoria di un direttore responsabile iscritto all'Ordine dei
giornalisti, la seconda potrebbe farne a meno. Con i conseguenti dubbi di
costituzionalità, confermati dalla frase successiva:
Si applica l’articolo 16 della legge 7 marzo 2001, n. 62.
Il quale, ricordiamo, dice che "i soggetti tenuti all’iscrizione al
registro degli operatori di comunicazione... sono esentati dall’osservanza
degli obblighi previsti dall’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.
L’iscrizione è condizione per l’inizio delle pubblicazioni". Dunque si
conferma la differente disciplina tra stampa, radio e TV da una parte e internet
dall'altra. L'ultima frase sarebbe il corrispettivo della disposizione dell'art.
della 48/47 ("Nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del
tribunale"...). Poi il testo precisa:
Si considerano siti aventi natura editoriale quelli che contengono, in via
prevalente, prodotti editoriali come definiti dall’articolo 1 della legge 7
marzo 2001, n. 62.
La precisazione sembra tautologica. La chiave è nell'inciso "in via
prevalente", che esclude dalla nozione di "prodotto editoriale" i
siti non specificamente... editoriali. Ma il problema è un altro: non è il
criterio della "editoria" che dovrebbe costituire la discriminante, ma
quello della "informazione". Perché l'editoria è un concetto molto
vasto, che comprende anche l'informazione. Ma ecco una disposizione che
chiarisce in qualche modo le precedenti:
2. Gli editori di testate giornalistiche in formato elettronico e digitale
sono soggetti, ai fini dell’applicazione delle norme sulla responsabilità
connessa ai reati a mezzo stampa, all’iscrizione nel registro di cui all’articolo
1, comma 6, lettera a), numero 5), della legge 31 luglio 1997, n. 249. Si
applica l’articolo 16 della legge 7 marzo 2001, n. 62.
Riassumendo: il "sito" che ha natura editoriale deve iscriversi al
ROC. Ma se una "testata giornalistica in formato elettronico e
digitale" è ospitata da un sito che non ha natura editoriale (o esce, per
esempio, su supporto ottico), allora è la testata che deve essere iscritta, con
quello che ne segue. Una domanda: se il sito ha natura editoriale (per esempio,
interlex.it) e vi si pubblica una testata giornalistica (InterLex), si devono
chiedere due registrazioni?
E adesso viene il bello:
Si considerano testate giornalistiche in formato elettronico e digitale
quelle che sono diffuse al pubblico con regolare periodicità e per le quali è
previsto il conseguimento di ricavi da attività editoriale.
Chiaro quanto assurdo. E non solo assurdo. Perché, come abbiamo visto, il
criterio della periodicità (non esiste una "periodicità irregolare"
- signori Deputati, un po' di rispetto per la lingua italiana!) non ha senso per la
qualificazione della natura editoriale (rectius: informativa) di una
pubblicazione. Ma anche il criterio dei ricavi non soddisfa, perché da una
parte nega che si possa fare informazione anche gratis e dall'altra è in
contraddizione con la premessa "ai fini dell'applicazione delle norme sulla
responsabilità connessa ai reati a mezzo stampa". Di fatto si dice (ma
senza chiarire il punto) che la responsabilità per questo tipo di reati è
differente se il sito prevede, o no, il conseguimento di ricavi. Ancora con
qualche sospetto di incostituzionalità: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali", dice l'art. 3 della nostra Carta fondamentale. E quindi
dovrebbero essere uguali davanti alla legge quelli che prevedono e quelli che
non prevedono ricavi.
Inutile dire di più. Queste disposizioni non hanno alcun riferimento alla
realtà dell'informazione di oggi. Un'informazione, lo ricordiamo, senza
confini, sicché il primo elemento che dovrebbe essere preso in considerazione,
nella discutibile ottica del legislatore, è quello relativo al
"domicilio" dei siti e delle pubblicazioni. Perché le norme che
abbiamo citato possono operare solo in ambito nazionale e difficilmente
potrebbero essere accettate in altri Paesi. Per esempio, gli Stati Uniti
d'America, dove il Primo Emendamento della Costituzione stabilisce seccamente
che il Congresso "non può" nemmeno legiferare sulla materia.
Ma, a giudicare dalla vicenda di Indymedia, non ci sono problemi: la
magistratura italiana e quella svizzera chiedono alla polizia federale americana
di sequestrare un sito che fa informazione e che ha sede in Gran Bretagna (se le
ricostruzioni sono corrette, vedi ancora Indymedia, un sequestro
"politico"?). Anzi, no, Indymedia non fa informazione, fa
controinformazione. O forse nemmeno quella, perché "Aver oscurato il sito di Indymedia è stata una cosa buona e giusta: non si trattava di controinformazione, ma di un sito che sputava fango e veleno, pieno di oscenità",
come ha detto un parlamentare italiano. E siccome le leggi difendono chi fa
informazione... ecco che le norme italiane, che tentano di definire quali sono
"prodotti editoriali" e quali no, acquistano un senso. Molto
preoccupante.
|