Oggi al Senato
incomincia la discussione su quella che ormai è nota
come "legge-bavaglio". La maggioranza ha
faticosamente trovato un accordo su undici
emendamenti, strombazzati come la soluzione che
risponde a tutte le critiche. Non lasciamoci
impressionare: l'unico emendamento possibile è l'affossamento
del progetto.
Forse mai, nella breve storia della nostra
Repubblica, un disegno di legge ha suscitato tante
discussioni e tante reazioni contrarie. Di fatto i suoi
contenuti sono dirompenti: il DDL S1611 limita da una
parte gli strumenti di indagine della magistratura e
dall'altra il diritto dei cittadini di conoscere persino
l'esistenza di indagini su ipotesi di reato
che possono destare un forte allarme sociale.
Il principio che si fa vista di proteggere con queste
norme è la tutela della sfera personale degli
intercettati, in breve la "privacy". Ma le
cose non stanno così, almeno per la parte che riguarda
l'attività dei magistrati. La questione è più
semplice di quanto sembra: il giudice che indaga
su possibili reati viola la sfera riservata dei
sospettati o indagati? La legge che tutela la
privacy prevede espressamente che questa debba cedere di
fronte all'esigenza di giustizia della società. Dunque l'affermazione che i giudici violano la privacy
è una solenne sciocchezza.
Ed è opinione comune, condivisa in tutti gli stati
democratici, che la tutela della riservatezza è
attenuata per le persone che rivestono
cariche pubbliche. In sostanza i cittadini hanno il
diritto di sapere se gli eletti sono persone oneste o se
sono sospettabili o sospettate di commettere reati. E'
il principio della trasparenza, che viene soddisfatto
quando i mezzi di informazione possono dare notizia di
indagini in corso a carico di note personalità.
E' anche vero che la pubblicazione di notizie su
indagini in corso, e ancor più degli atti delle
indagini, può nuocere a persone che non sono indagate e
che non hanno nessuna relazione con i fatti oggetto di
accertamento da parte della magistratura. Questo è
l'unico reale problema che deve essere risolto.
Ma la protezione della sfera riservata delle persone
è solo il pretesto di questo disegno di legge. La
ragione vera è che si cerca di imbavagliare quella
parte dell'informazione, in particolare stampa e
internet, che è ancora libera di dare conto ai suoi
lettori di fatti che riguardano le "caste" o
le "cricche" che governano il Paese. Per la
televisione non c'è problema: bastano i Minzolini e i
Masi per far tacere, o almeno ridurre l'ascolto delle
voci disubbidienti (vedi Minzolini dalla prescrizione alla
proscrizione, Ruffini
"reintegrato" dal giudice. E Santoro, Busi, Dandini...).
Per l'internet si devono usare altri sistemi. Ed ecco
il rinnovato
Testo unico dei servizi di media
audiovisivi e radiofonici, che applica la disciplina delle emittenti
televisive alle varie forme di televisione via internet.
Ma ecco, soprattutto, un feroce disposizione del disegno
di legge in discussione: recita infatti il comma 28,
modificando l'art. 8 della decrepita legge sulla stampa
del 1947: "Per i siti informatici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si
riferiscono".
La sanzione, diminuita da uno degli undici
emendamenti proposti in vista della discussione in aula,
è tale da dissuadere qualunque blogger dal pubblicare
notizie che possano essere solo lontanamente lesive
dell'immagine di chicchessia o che riguardino indagini
in corso.
Ora è vero che anche la diffamazione via internet
deve essere sanzionata. Ma da qui alla mannaia c'è
spazio per soluzioni più praticabili e meno micidiali.
Non si possono pretendere da un'attività amatoriale,
spontanea, gli stessi obblighi che si esigono da un
editore o da un professionista dell'informazione.
A questo proposito c'è da segnalare un altro
emendamento dell'ultima ora: il divieto di svolgere
registrazioni "private" all'insaputa
dell'interlocutore (il cosiddetto "emendamento
D'Addario") prevedeva una clausola di non
punibilità solo per i giornalisti iscritti all'albo
nell'elenco dei professionisti. Una norma in forte odore
di incostituzionalità, come l'art. 200 del codice di
procedura penale, che al comma 3 riconosce solo ai
giornalisti professionisti la facoltà di non rivelare i
nomi delle fonti.
Sappiamo che oggi buona parte dell'informazione è
prodotta da pubblicisti o (giornalisti) - vedi (Giornalista): una professione tra
parentesi. Sono quasi tutti pubblicisti, per
esempio, i collaboratori di trasmissioni come Report
di Milena Gabanelli o Presadiretta di Riccardo
Iacona, che danno tanto fastidio alle caste. E questo la
dice lunga sugli scopi della nuova norma. Ora
l'emendamento vuole estendere la non punibilità a tutti i
giornalisti iscritti all'ordine professionale. Ma non
risolve il problema di fondo: anche con gli undici
emendamenti, il testo del Senato resta un disegno
di legge-bavaglio.
Ora le prospettive sono queste: o il disegno di legge
si arena nella discussione alla Camera dei deputati, o
il Presidente della Repubblica non lo promulga, o la
legge passa. E allora non resta che il ricorso alla
Corte europea dei diritti umani. Ci sarà un giudice a
Strasburgo!
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