Sono passati quasi trent'anni da quando, nel corso di
una perquisizione all'aeroporto di Fiumicino, fu trovato
il "Piano di rinascita democratica" della P2,
nascosto nel doppiofondo di una valigia della figlia di
Licio Gelli. "Dissolvere la Rai" era uno dei
punti essenziali del piano. La missione non è ancora
compiuta, ma ormai è a buon punto (vedi, fra l'altro, 1982-2010, l'ordine non cambia:
dissolvere la Rai e Annozero è morto. E anche la Rai non
sta molto bene).
La lenta operazione non passa solo per le censure e
l'epurazione dei personaggi non allineati, ma anche per
la scomparsa dei canali del servizio pubblico in molte
aree passate al digitale terrestre. I problemi sono
incominciati più di due anni fa, con lo switch-off
della Sardegna. E sono apparsi in tutta la loro gravità
al momento del passaggio in Lazio e Campania, alla fine
del 2009.
Ora, finalmente, l'Autorità garante della concorrenza e
del mercato apre un'istruttoria, in seguito alla
denuncia di Federconsumatori e alle segnalazioni di
molti utenti.
Il comunicato
stampa dell'Autorità va letto con attenzione. Parla
di "informazioni inesistenti o addirittura ingannevoli sulla copertura del segnale televisivo sia analogico che
digitale... in alcune zone del Paese, in particolare in Toscana, i consumatori non riescono a vedere bene i canali
Rai". Sotto accusa è dunque la società del
servizio pubblico, "che con i suoi comportamenti, li avrebbe indotti ad acquistare apparecchiature come antenne o decoder nuovi nella speranza di ottenere una migliore qualità del
segnale". Ancora: "A queste somme vanno aggiunti, poi, gli oneri derivanti dalla scelta di sistemi televisivi alternativi come il sistema
satellitare".
Ma è veramente colpa della Rai? Aspettando le
conclusioni dell'Antitrust si può ricostruire
facilmente la situazione.
In partenza ci sono due punti chiari: il primo è che
l'Italia è un territorio in prevalenza montuoso, quindi
con molte zone difficili da servire con il segnale
terrestre, che viaggia in linea retta e si ferma davanti
alle montagne; il secondo è il caos delle frequenze,
frutto dell'occupazione selvaggia compiuta dagli anni
'70 del secolo scorso, in totale assenza di regole.
Il passaggio al digitale avrebbe potuto essere
l'occasione per mettere ordine. Invece è stato fatto
sulla base del disastroso status quo, utilizzando
anche le frequenze poco efficienti in VHF (quelle di Rai
1 analogica) e quelle dei canali da 61 a 69, destinati
ad essere tolti ai servizi televisivi e assegnate alle
telecomunicazioni in mobilità.
Inoltre l'assegnazione è stata fatta secondo il
criterio "un multiplex digitale per un canale
analogico", quando su un multiplex si possono
trasmettere almeno quattro canali digitali.
Se invece si fosse fatto uno "scambio" uno
a uno, ci sarebbe stata una quantità di canali liberi,
che sono un bene pubblico, da assegnare in modo più
efficace.
Il risultato è quello che si vede (o non si vede...).
Telespettatori furiosi. In molte zone digitalizzate si
ricevono centinaia di canali inutili, perché
trasmettono gli stessi programmi o sono occupati da
contenuti fittizi. Ma non si ricevono i canali del
servizio pubblico (vedi Switch-on. E nel Lazio il caos e i canali fantasma).
D'altra parte sembra che qualche area ancora analogica
abbia "perso" i programmi Rai, a causa di
interferenze dalle vicine regioni digitalizzate.
Alcune cose dovrebbero andare a posto dopo il
completamento dello switch-off, ora anticipato alla fine
del primo semestre 2012. Ma, a meno di una decisa
inversione di rotta, i problemi del servizio pubblico
non saranno risolti. Anzi, sembrano destinati ad
aggravarsi con le proddime tappe della digitalizzazione.
Lo spiega bene Carlo Rognoni, ex consigliere di
amministrazione della società di viale Mazzini,
nell'articolo pubblicato sabato 18 scorso su Il
Riformista. Il titolo parla chiaro: "Romani scippa le frequenze alla Rai".
Infatti il ministro Paolo Romani ha in mano la gara
per l'assegnazione dei cinque nuovi multiplex del
"dividendo digitale", due dei quali sono già
assegnati a Rai e Mediaset. E' lui che nomina i giudici
del cosiddetto beauty contest ("concorso di
bellezza"? mah...) che dovrà assegnare le
frequenze. E che saranno costretti, dall'Europa e dal
Consiglio di Stato, a valutare anche la
"bellezza" di Sky, che il ministro ha tentato
invano di escludere dalla gara.
Romani è il primo anello della "catena di
comando e controllo" del sistema televisivo.
Sistema che fa capo al signore delle televisioni,
proprietario di Mediaset nonché Presidente del
consiglio dei ministri. Si chiama "conflitto di
interessi", ma nessuno se ne preoccupa.
Romani si troverà di fronte a un'altra
"grana": la resistenza delle emittenti che
oggi occupano i canali da 61 a 69 e che non sono
disposte a sloggiare facilmente. L'effetto potrebbe
essere quello di un ritardo nella stesura della mappa
definitiva delle frequenze terrestri.
L'Antitrust mette sotto accusa la Rai. Rognoni, nell'articolo
chiede se "non sarebbe il caso che il CDA si facesse carico di una reazione orgogliosa della
Rai evitando che la bulimia di Mediaset e del cavalier Berlusconi oltre a far perdere credibilità e immagine al servizio pubblico lo depauperasse del patrimonio delle
frequenze".
Reazione orgogliosa contro chi? Contro gli anelli
superiori della catena? Perché è bene ricordare le
decisioni che hanno determinato la situazione di oggi
sono state prese, nella forma e nella sostanza, dal
Ministero e dall'Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni.
E allo stato dei fatti una "reazioni
orgogliosa" sembra del tutto improbabile.
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