I problemi del digitale terrestre hanno due cause
principali: la geografia e la politica. Tutte e due non
vanno d'accordo con la tecnica. Vediamo perché. 1. La geografia. Il nostro territorio è in
gran parte montuoso. Come ormai tutti sanno, nelle bande
radioelettriche usate per la televisione terrestre i
segnali viaggiano in linea retta, cioè non scavalcano i
rilievi. Per questo la copertura di tutta la Penisola
richiede molti trasmettitori, ciascuno dei quali
serve un'area più o meno limitata (per dare un'idea: in
analogico la Rai raggiungeva il 98 per cento della
popolazione usando circa 6.500 impianti).
Ma due trasmettitori non possono usare la stessa
frequenza in aree adiacenti: interferiscono, si
disturbano a vicenda. In alcuni casi vince il più
potente, in altri si notano disturbi, in altri non si
vede nulla. Con il digitale la questione si complica e
si semplifica nello stesso tempo: o un segnale arriva
abbastanza "pulito", perché l'interferenza è
al di sotto di un certo livello, o non si vede nulla. La
situazione intermedia, fatta di "squadrettature"
del video e interruzioni dell'audio, equivale di fatto a
non vedere nulla.
Dunque, se in Lombardia si usa il canale 30, questo
non dovrebbe essere usato né in Piemonte, né in Veneto
né in Emilia-Romagna. In pratica, per coprire tutto il
territorio nazionale senza interferenze, in ogni area si
può usare un terzo delle frequenze disponibili. Che
sono 8 in VHF e 48 in UHF, in totale 56. Significa che
in ogni area non se ne possono usare più di 18 o 19.
Ma, come tutti sappiamo, ci sono zone in cui trasmettono
decine e decine di emittenti locali, oltre ai network
nazionali.
In analogico è semplicemente il caos. Quello
iniziato alla fine degli anni '70, con le emittenti che
si disturbavano a vicenda e i relativi problemi di
ricezione per gli utenti. Il passaggio al digitale
poteva essere l'occasione per mettere ordine senza
penalizzare nessuno. Infatti su ogni frequenza, al posto
di un canale analogico c'è un apparecchio (multiplex,
MUX per gli addetti ai lavori) che può
trasmettere più canali (quattro all'inizio, almeno sei
oggi, grazie a una tecnologia più avanzata). Quindi,
sulle diciotto frequenze disponibili in ogni area, si
potrebbero trasmettere 108 canali senza problemi. Invece
è ancora il caos, con centinaia di emittenti che si
ricevono (o non si ricevono...) nelle stesse zone.
2. La politica. Questa situazione è il
risultato di tre scelte assurde compiute dal
legislatore. La prima risale alla legge n. 66 del 2001,
che ha consentito il "trading delle
frequenze". Cioè la facoltà per ogni operatore di
cedere ad altri tutta o parte della capacità
trasmissiva di cui dispone. Si deve ricordare che le
frequenze sono un bene pubblico limitato, il cui uso
viene "concesso" alle emittenti per un tempo
determinato. Alla scadenza della concessione, questa
può essere rinnovata, oppure le frequenze ritornano
nella disponibilità dello Stato.
Insomma, gli operatori televisivi non sono
"proprietari" delle frequenze che usano. Ma
fanno finta di non saperlo. E ha fatto finta di non
saperlo anche il legislatore: invece di assegnare
"uno a uno" un canale digitale per ogni canale
analogico, ha fatto uno scambio "uno a uno"
con le frequenze. È la seconda scelta assurda. Così
ogni operatore televisivo si è trovato a disporre di
una banda sulla quale si possono trasmettere anche otto
canali televisivi (sacrificando la qualità): è banda
da "rivendere" ad altri operatori.
In ultima analisi, si è consentito ai privati di
lucrare su un bene pubblico. Per la cronaca, si è
tentato di ripetere il gioco con il "beauty
contest" inventato dall'ex-ministro Romani a favore
di Berlusconi: frequenze assegnate gratis, ma rivendibili
dopo cinque anni (per altre considerazioni sul punto
vedi Frequenze, il pasticcio che fa tremare il Governo,
Frequenze
all'asta in un caos lungo trent'anni e Sassano: non hanno seguito le
indicazioni dei tecnici).
Se con lo switch-off si fosse assegnato un canale
digitale per ogni canale analogico, sarebbe avanzato un
grande numero di frequenze, utili per servizi diversi
(in particolare per quelli in mobilità, sui quali le
imprese di telecomunicazioni puntano molto). Ma che se
ne fanno ora gli operatori della banda che non gli
serve? Per adesso nulla o quasi: trasmettono in
simultanea gli stessi programmi o cedono ad altri
operatori la capacità trasmissiva che non usano.
Ma questa è solo la premessa: non ci sarebbero molti
problemi se le frequenze fossero state assegnate
rispettando il piano stabilito nel 2009, cioè tenendo
conto della necessità di impiegare frequenze diverse in
aree adiacenti. Invece in molte aree sono state
assegnate tutte le frequenze disponibili: la terza
scelta assurda. Il risultato sono le interferenze che si
verificano tra emittenti che usano la stessa frequenza
in aree adiacenti.
Non basta. Si sapeva da tempo che i canali dal 61 al
69, da sempre assegnati ai servizi televisivi, dovranno
essere liberati e destinati ai servizi mobili. Lo ha
stabilito il decreto-legge n. 34 del 31 marzo 2011.
Ebbene, solo quattro mesi prima, nel novembre 2010,
questi canali erano stati assegnati a diversi operatori
televisivi. Che presto dovranno sloggiare.
Naturalmente dovranno essere risarciti. La solita
storia all'italiana: le frequenze sono state assegnate
con un'asta che ha spuntato la bella cifra di 4 miliardi
di euro. Il 10 per cento di questa somma, 400 milioni,
doveva servire a risarcire gli operatori televisivi
obbligati a liberare le frequenze destinate ad altri usi.
Ma ora sono diventati 175 e sono furiosi. Una sola cosa
è certa: la liberazione delle frequenze da 61 a 69
aumenterà il caos.
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