Non è Casablanca,
colonnello Rey 
 

Libia 2015
L'agente senza pistola
tra i tagliagole dell'ISIS

 

Le storie del colonnello Rey:
Il colonnello Rey, suppongo
Un doppio enigma, colonnello Rey
Non è Casablanca, colonnello Rey
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La terza storia dell'agente senza pistola

Le prime pagine del romanzo

1. Mercoledì

Il cielo su Palermo. Ore 10.42

«Cleared to land», atterraggio autorizzato. Poi solo rumore. L’ATR 72 ha perso il contatto radio con l’aeroporto Falcone e Borsellino. All’improvviso gli strumenti sono impazziti. Sotto la pioggia battente l’aereo cieco e sordo esce dal fitto strato di nuvole.
Il comandante De Mauro sbarra gli occhi davanti alla massa scura. «La montagna! Riattacca!».
Il secondo pilota Berruti dà potenza ai motori e riporta tra le nubi grigie l’aereo che balla nella turbolenza. Schiaffi di pioggia sui finestrini.
«Palermo approach India Foxtrot Alfa Kilo, radio check», chiama il comandante. Nessuna risposta. In cuffia solo un fruscio assordante.
«Dev’essere una tempesta magnetica, e bella forte».
«Strano, non arrivano mai senza preavviso. Non è mai facile atterrare a Palermo, tra il mare e la montagna, spesso col vento a raffiche e il wind shear. Ma se adesso ci si mettono anche la radio e gli strumenti fuori uso… Palermo approach India Foxtrot Alfa Kilo, radio check».
De Mauro fissa il quadrante del TCAS, lo strumento che segnala la vicinanza di altri aerei. Nessun allarme. Ma funziona?
«Palermo approach India Foxtrot Alfa Kilo, radio check».
La risposta è solo il soffio che continua.
«Palermo approach India Foxtrot Alfa Kilo, radio check».
Palermo non risponde. Il rumore in cuffia sembra sempre più forte. Ma adesso le nuvole sono in basso. Sopra c’è di nuovo l’azzurro.
«Quale rotta, comandante?», chiede ironico il secondo.
«Bella domanda. Poco fa su Napoli il tempo era buono». Butta l’occhio sugli strumenti inservibili, poi guarda il sole e indica la rotta puntando l’indice verso Nord. «Dobbiamo informare i passeggeri del contrattempo…».

Il cielo su  Malta. Ore 10.44

Poche nuvole, buona visibilità. Il Boeing 737 aspetta l’autorizzazione all’atterraggio, ma da due minuti il comandante Roberts ha perso il contatto con la torre di controllo. In cuffia sente solo un forte rumore. Anche gli strumenti danno indicazioni strane. Ma l’aereo è allineato, la pista è libera. Atterrare a vista non è un problema. Roberts stacca il pilota automatico e prende i comandi manuali.
«Attento a ore due, c’è un aereo che entra in pista!», urla il secondo pilota Clark e alla vista di un vecchio caccia Mig 23 che vira stretto da Est sotto il 737.
«Go around», grida Roberts. Dà potenza ai motori e riprende quota. «’rca miseria, c’è mancato poco che gli piombassimo addosso».
«Senza contrassegni…», osserva Clarke. «Ma con quei colori mimetici deve essere libico».

Brindisi. Centro di controllo d’area. Ore 10.46

«Non funzionano neanche i telefoni», urla il direttore della sala del Centro di controllo d’area. «Continuate a chiamare tutti gli aerei, usate anche la frequenza di emergenza, cercate di contattare tutti gli aeroporti, chiamate la Difesa, provate anche le frequenze HF».
Da quattro minuti sono caduti i contatti con tutti gli aerei in volo. Gocce di sudore sulla fronte degli operatori radar. «Direttore, ancora nessuna comunicazione con gli aerei. C’è solo un rumore assordante su tutte le frequenze. Anche i radar hanno problemi».
«Avvisatemi se vedete conflitti di traffico. Tenete d’occhio l’ACAS. Ma che cavolo sta succedendo? Deve essere una tempesta magnetica… Possibile che non ci abbiano avvertito? In questi casi ci avvisano sempre in anticipo».
In tutte le sale di controllo del Mediterraneo centrale, da Malta a Marsiglia, la preoccupazione diventa paura e senso di impotenza. Gli operatori osservano sugli schermi gli spostamenti di decine di aerei. Ma sono solo targhette che si muovono tutte insieme, sorde e mute.
Risuonano gli avvisi acustici dei potenziali conflitti di traffico. Ma nessuno può sapere se sono allarmi reali o disturbi causati da una tempesta magnetica. O da chissà che cosa.

Roma, aeroporto di Ciampino. Ore 10.47

Tre persone siedono intorno a un tavolo in una saletta riservata dell’aeroporto  militare. Sono il generale Alfonso Mattei, direttore dei servizi segreti esterni, il suo aiutante maggiore Giuseppe Aliforni e l’assistente del ministro della Difesa dottoressa Viviana Salvi.
Il generale vede dalla finestra il Falcon 900 EX che rulla sulla pista sotto la pioggia. Chiude il fascicolo e lo ripone nella cartella. «Andiamo, maggiore Aliforni, quello è il nostro aereo… Ci mancava anche la pioggia… Dottoressa Salvi…».
Bussano alla porta. Entra un capitano dell’aeronautica. «Il suo aereo è pronto, signor generale. La procedura per i voli segreti è attivata. Ma dobbiamo aspettare, perché sembra che ci siano delle interferenze radio e non riusciamo ad avere il via libera da Malta, che è ancora in attesa della conferma da Tobruk».
«Grazie, capitano Amici. I nostri caccia sono già in volo?».
«Due Eurofighter hanno i motori accesi e sono pronti al decollo  da Pratica di Mare. La scorta all’aereo che parte da El Adem è assicurata da Malta, perché i libici in questo momento hanno buoni motivi per non far alzare quel che resta dei loro Mig».
«Va bene, aspettiamo». Il generale guarda l’orologio con una smorfia di disappunto. «Dottoressa Salvi, assicuri il ministro che la prossima settimana, nell’audizione alla Commissione parlamentare, non farò cenno di questo incontro con il mio omologo del governo di Tobruk. Al ministro riferirò direttamente, anche stasera al mio ritorno, o comunque domani mattina».
«D’accordo, generale. Credo che il ministro questa sera abbia una cena ufficiale. Comunque dovrei vederlo tra poco in ufficio».
Mattei guarda fuori dalla finestra. «Aliforni, hanno messo la scaletta. Credo che intanto possiamo imbarcarci». Si alza e si avvia all’uscita, seguito dagli altri due. Ma il capitano Amici è di nuovo sulla porta, con un walkie-talkie all’orecchio. «Signor generale, c’è un black-out totale delle comunicazioni. I radar sono impazziti, i computer non funzionano. Dalla torre di controllo non riescono a comunicare con gli aerei in volo. Sembra una tempesta magnetica… Un attimo… Sì, sì, riferisco», dice nel telefono. «L’interferenza sembra cessata, ma dalla torre non autorizzano il decollo. Si deve aspettare almeno fino a quando non sarà individuata la causa del problema e tutti i sistemi non saranno ritornati alla normalità».
Il generale ha un gesto di stizza. «E quanto tempo ci vuole?».
«Signor generale, non possiamo saperlo. Forse minuti, forse ore».
«Ci mancava anche questa! Aliforni, avvertite Malta e Tobruk che l’incontro è rimandato per cause di forza maggiore. Faccia chiamare l’autista e rientriamo in ufficio. Questo contrattempo non ci voleva… Speriamo che a Tobruk non pensino che vogliamo evitare l’incontro. Stabiliamo una nuova data, prima possibile».
Il capitano Amici compare di nuovo. «Signor generale, la sua macchina è qui fuori. Ma il traffico sulla via Appia è completamente bloccato. Le comunicazioni funzionano sulle linee di emergenza, ma i computer hanno ancora problemi. Non so se è il caso di usare un elicottero…».
«Perché no? Da qui al centro di Roma si può volare a vista, non abbiamo tempo da perdere. Dottoressa Salvi, è probabile che dal ministero la stiano cercando. Le possiamo dare un passaggio, se vuole».

Tripoli, Central Business District. Ore 10.48

Cipiglio autoritario, tuta mimetica e Kalashnikov al fianco, gli scarponi del poliziotto rimbombano nei corridoi vuoti del Central Business District. L’ingegner Charles Leblanc lo segue. Di media statura, asciutto. La barba ben curata, tra il rossiccio e il grigio, e gli occhiali sfumati dalla montatura spessa rendono vaghi i lineamenti. Il poliziotto bussa a una porta come tutte le altre, ma protetta da altri due tipacci in mimetica e Kalashnikov. In una grande stanza anonima due uomini e due donne davanti ai computer.
Si apre una porta laterale e appare il ministro Mohamed Shalaby. Alto, massiccio, i capelli candidi. Impeccabile completo blu, l’aria di un importante uomo di affari più che di governo. Tende la mano e invita Leblanc ad entrare. Il disadorno ufficio dirigenziale non ha l’austera imponenza di una stanza governativa. Solo l’enorme scrivania rivela l’importanza del personaggio.
«Signor Leblanc», dice Shalaby nel suo buon inglese, «noi sappiamo bene che se rimettiamo in funzione l’aeroporto adesso, il cosiddetto governo di Tobruk o il sedicente Stato islamico lo bombardano il giorno dopo. Ma questa situazione non può durare all’infinito e verrà il giorno in cui Tripoli sarà riconosciuta come unica capitale della Libia. In quel momento l’aeroporto internazionale dovrà funzionare. Vogliamo essere pronti».
L’ingegnere ascolta impassibile. Dietro gli occhiali il suo sguardo è fisso sul ministro, ma sembra che guardi più lontano.
«Lei capisce, signor Leblanc, qual è il nostro obiettivo. La situazione internazionale appare bloccata, ma lei sa che lo scenario è in evoluzione. Il nostro governo non è riconosciuto ufficialmente da molti Stati, che però stanno trattando con noi, perché solo noi siamo in grado di dare alla Libia un assetto stabile. E lo dimostreremo anche con la normalizzazione dei rapporti commerciali, oltre che istituzionali. Per questo la ripresa dell’attività dell’aeroporto internazionale sarà un segnale importante, al momento opportuno».
Leblanc fa un cenno di assenso. «Capisco, signor ministro. Se la situazione è quella descritta nel dossier che ci avete inviato, noi possiamo presentarvi un progetto di massima nel giro di un paio di settimane. Comunque ne riparleremo dopo il sopralluogo che abbiamo previsto per domani. Devo vedere se c’è qualcosa di recuperabile dagli impianti che abbiamo messo in funzione prima del 2011. Il problema è che non possiamo installare nulla prima che le strutture essenziali dell’aeroporto siano riparate o ricostruite. Nel frattempo possiamo mettere a punto un progetto dettagliato, ordinare e predisporre tutte le apparecchiature e iniziare la formazione del personale. Tutto questo richiede tempo, forse più di tre mesi prima di passare alla fase operativa».
Squilla uno dei telefoni sulla scrivania del ministro. Mentre solleva la cornetta suonano contemporaneamente un altro telefono e un cellulare.
«Scusi, signor Leblanc». Il ministro parla in arabo alternando i telefoni all’orecchio. Sembra allarmato. Un giovane entra e gli dice qualcosa in tono concitato. Il ministro chiude una comunicazione, appoggia l’altro telefono sulla scrivania, si rimette in tasca il cellulare. Scrive rapido un appunto, lo consegna al giovane e gli dà una serie di istruzioni in tono di comando. L’assistente va via di corsa.
Dopo un attimo il ministro si rivolge all’ingegnere con un sorriso di circostanza. «Signor Leblanc, mi dispiace, dobbiamo interrompere la nostra conversazione. Si sta verificando un’emergenza. La prego di scusarmi. Purtroppo non possiamo rivederci domani, perché c’è una riunione del governo alla quale non posso mancare. Venerdì per noi è una giornata festiva. Se per lei non è un problema trattenersi a Tripoli fino a sabato…».
L’ingegnere non cambia espressione. «Non è un problema, devo solo spostare il volo. Ma domani posso andare a vedere l’aeroporto, come avevamo programmato?».
«Certo, la faccio accompagnare da un mio assistente». Si alza e fa passare l’ospite nell’ufficio-anticamera, dove gli impiegati parlano concitati ai telefoni. Il ministro si rivolge al giovanotto che era comparso poco prima, un tipo smilzo che assomiglia in modo preoccupante al giovane colonnello Gheddafi del colpo di stato del 1969. «Jibril verrà a prenderla in albergo domani mattina alle dieci, se per lei va bene. Le faccio chiamare un taxi?».
«Grazie, preferisco fare due passi».
«Arrivederla, signor Leblanc, e mi scusi ancora per il contrattempo. Spero che il suo soggiorno a Tripoli sia piacevole. Si rivolga pure a Jibril per qualsiasi necessità», conclude il ministro chiudendo la porta alle spalle dell’ingegnere.

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