La sospensione di due puntate di Annozero e la presentazione di una
bozza di disegno di legge per la privatizzazione della
Rai: due notizie che per una pura coincidenza sono
arrivate, ieri, quasi nello stesso momento. Ma è stata
una coincidenza significativa, perché l'annosa vicenda
dei tentativi di imbavagliare il giornalista Michele
Santoro è il sintomo di un malessere che la
bozza di Futuro e libertà per l'Italia dice di
voler curare (vedi Vaffa... E finalmente
Masi riesce a censurare Annozero).
Che il servizio pubblico radiotelevisivo versi in una condizione
inaccettabile per qualsiasi democrazia appare ormai
chiaro a tutti, tranne che ai corifei del signore delle
televisioni. Lo testimoniano, fra l'altro, due recenti
mozioni presentate alla Camera, la 1-00436
e la 1-00441. I
primi firmatari sono, rispettivamente, Italo Bocchino e
Giuseppe Giulietti: il primo della maggioranza, il
secondo dell'opposizione. E i contenuti dei due
documenti sono del medesimo segno.
Ma il gruppo di Futuro e libertà va oltre. Con una bozza di proposta di
legge, parte di un articolato
dossier, propongono di "privatizzare" la
Rai. Non è un'idea nuova, ma qui viene intesa nel senso
più completo del termine: venderla ai privati e abolire
il cosiddetto canone, pagato (ed evaso) dai cittadini.
E il servizio pubblico? Da distribuire tra i titolari
delle concessioni televisive. Cioè la fine della
"missione" che storicamente, in tutta Europa,
è affidata ai servizi pubblici statali.
Il progetto va oltre quello contenuto nella "legge Gasparri",
che prevedeva una improbabile società "ad
azionariato diffuso", ma almeno riconosceva di
fatto la funzione della più grande azienda italiana
produttrice di cultura e di informazione. Qui invece si
vuole trasformare la Rai in una società privata, come
Mediaset o Sky, tesa al profitto e basta. Il che
significa prima di tutto il livellamento in basso della
qualità della programmazione e quindi la fine di tanti
programmi di eccellente livello che l'azienda di viale
Mazzini continua, nonostante tutto, a produrre.
Non basta. Nel momento in cui, finita la missione del servizio pubblico,
la Rai dovesse essere gestita con criteri esclusivamente
privatistici, i proprietari si renderebbero conto della
sua relativamente scarsa produttività, derivante dal
rapporto tra il fatturato e il numero dei dipendenti.
Con la conseguenza di licenziamenti di massa.
Si sostiene che l'azienda potrebbe fare la fine dell'Alitalia. Non è
vero, perché i conti sono sostanzialmente in ordine.
Basterebbe agire seriamente per ridurre l'evasione del
canone, per dare alla Rai le risorse per svolgere un
servizio ancora più efficace e rispondere senza
problemi alle sfide poste dagli sviluppi tecnologici e
del mercato.
Il problema è uno solo: sottrarre l'azienda all'influenza della
politica, resa ancora più pesante dal conflitto di
interessi del Presidente del consiglio. Le soluzioni
possibili sono molte, molte proposte sono state
avanzate. Basti ricordare l'abortito progetto
di legge di iniziativa popolare e il disegno di legge "Gentiloni",
ambedue del 2006. Che non risolvevano del tutto il
problema dell'influenza della politica, ma mantenevano
intatte le potenzialità e la missione del servizio
pubblico.
In quest'ottica la titolarità delle azioni è un problema secondario.
L'obiettivo principale deve essere l'imparzialità (e
non solo il "pluralismo") del servizio
pubblico. Il che comporta la presenza di un organismo di
controllo neutrale, imparziale, indipendente (non come
l'autorità attuale, che rispecchia gli equilibri
parlamentari ed è indipendente solo di nome).
L'esempio di una soluzione possibile viene dalla patria
del servizio pubblico radiotelevisivo, la Gran Bretagna.
Con l'ultima Royal Charter è stata costituita
un'autorità di controllo separata dalla governance,
proprio per mantenere la leggendaria indipendenza della
BBC.
Dunque, se è ovvio che l'indirizzo generale debba restare nelle mani
del Parlamento, il controllo non può essere affidato a
una commissione che riproduce la maggioranza
parlamentare. E nello stesso tempo governa l'azienda
attraverso la cinghia di trasmissione costituita dal
consiglio di amministrazione e da un direttore generale
che, di fatto, è nominato dal Governo. Con
l'aggravante, in questa lunga fase, che il governo
stesso è presieduto dal proprietario della principale
azienda concorrente.
Questo è il nodo da sciogliere. Tutto il resto viene di conseguenza.
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